22.10.07

 

Fermiamo il femminicidio di Ciudad Juarez!


Prosegue implacabile il rapimento, lo stupro, la tortura e l'uccisione di donne nella città messicana di Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti d'America, dove ad oggi sono state uccise 413 donne e 600 risultano scomparse, secondo dati ufficiali sotto stimati.

E' la terrificante risposta dei padroni delle maquilladoras, le aziende installate dopo gli accordi del libero scambio con gli Usa, alle lotte delle donne per la difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita. In queste aziende, ove si assemblano televisori, computer, ecc. viene sfruttata soprattutto manodopera femminile perchè più a buon mercato e, in genere, docile e laboriosa. Non appena una operaia accenna ad alzare la testa... sparisce. Lo stesso accade per qualunque donna che si incammini sulla via dell'autonomia femminile, in quanto di ostacolo al mantenimento dello status quo (cioè, al fiume di profitti generato dalla condizione di oppressione delle donne).

Nel 2001 Marisela Ortiz e Norma Andrade hanno fondato l'Associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa (Le Nostre Figlie di Ritorno a Casa), che ha un sito web: www.mujeresdejuarez.org/.

Manifestiamo in tutti i modi possibili, anche facendo girare questo post e l'indirizzo web dell'Associazione, la nostra solidarietà di genere e di classe alle donne di Ciudad Juarez! A morte i massacratori di donne! Per lo sviluppo dell'organizzazione autonoma di lotta femminile contro il capitalismo e il patriarcato per il comunismo!

Etichette: , , , ,


18.10.07

 

Gurbet Ersoz: guerrigliera kurda


Quali sono le nostalgie di una donna, che cosa vorrà fare una donna, come vorrebbe vivere, come potrebbe emanciparsi? Gurbet Ersoz è la risposta a queste domande.

Nata nel 1965 l'11 luglio a Ziver, un villaggio di Bingol, ha frequentato l'istituto professionale, concluso la facoltà di chimica nel dipartimento di scienze a Cukurola e abbandonato il dottorato di ricerca all'ultimo anno. Non accettò mai di fare la carriera universitaria perché la vedeva come una costrizione, che per una donna come lei si sarebbe sommata alla condizione di donna che già subiva. Forse per molte diventare professoressa è un sogno, ma per lei era come una trappola che ti apre le strade, ma poi ti aspetta al varco. Per lei la bellezza della vita era data da tutte quelle difficoltà che la rendono dura e allo stesso tempo auspicabile, per questo scelse la via più tortuosa e lunga, credendo nella luce che illumina la vita, che l'avrebbe attesa alla fine del cammino.

Una strada lunga che per poterla percorrere richiedeva un buon fiato, amore, fede, tenacia e una personalità decisa, tutto questo era in Gurbet.

La parola Gurbet significa esilio, Gurbetelli vuol dire colui/colei che vive in esilio. Un nome pesante dovuto al fatto che, alla sua nascita, il padre era lontano dalla sua terra e dalla sua casa.

La storia familiare di Gurbet è una storia antica e tipicamente kurda. Suo fratello morì combattendo da partigiano sulle montagne del Kurdistan e già il loro nonno all'inizio del Novecento, all'epoca delle rivolte kurde, aveva partecipato alla lotta.

La vita di Gurbet è sempre stata quella di una ragazza disciplinata e diligente, sapeva parlare tre lingue e due fra i dialetti kurdi. Quando andava alle elementari era molto intelligente, parlando spontaneamente in kurdo alle maestre, ai compagni e compagne, non venendo compresa si sentiva diversa e chiedeva al nonno che significava essere kurdo, che significava una rivolta. Durante l'università rimase molto impressionata dalla storia delle rivolte kurde dei primi anni del '900, questa è stata la prima ragione che l'ha spinta ad impegnarsi politicamente, cosa che gli costò più volte provvedimenti disciplinari. All'università nonostante avesse preferito studiare legge o giornalismo, si trovò a studiare le scienze, era fra le migliori studentesse del dipartimento di ricerche dell'università, ma non lasciò il suo sogno di fare la giornalista. Inoltre, già i racconti del nonno, quando era piccola, le avevano trasferito curiosità e voglia di impegnarsi, un nonno che dopo aver partecipato a quelle rivolte, soffocate nel sangue, non ne parlava mai, se non con la sua nipotina che lo interrogava.

A causa della sua intensa attività politica, in città e all'università, fu arrestata e subì gravi violenze mentre si trovava in carcere, l'accusa contro di lei era di essere una dei membri del PKK, di un'organizzazione terrorista, fu così condannata a dieci anni di prigionia.

Una volta libera, divenne [direttore responsabile] di Ozgur Gundem (uno dei tanti quotidiani filo kurdi sequestrati, messi al bando e costati la vita a molti), lavorò al fianco di importanti giornalisti e intellettuali Yasar Kemal, Haluk Gerger, Akin Birdal, coinvolgendo nel lavoro del giornale molti giovani. Il suo motto era, infatti, coinvolgere tutti gli uomini e le donne di buona volontà di Turchia, intellettuali e non, perché credeva fermamente che solo loro potessero essere le speranze e la luce, i simboli della fratellanza, dell'amicizia e della pace per la Turchia, per il popolo turco e per quello kurdo.

Lo slogan del giornale, che appariva sotto la testata, da lei fortemente voluto, era "le verità non rimarranno nell'oscurità".

I sui ritmi di lavoro al giornale, il suo impegno, la sua tenacia, erano sempre stati fonte di morale e coinvolgimento per tutti. Era piccolina e scura, tutti la chiamavano la "ragazza nera", ma la sua decisione, il suo modo responsabile di agire le significò un grande rispetto. Durante quel periodo, furono uccisi molti giornalisti e venditori di giornali, lei fu di nuovo arrestata il 10 dicembre 1993, data a cui risale anche la definitiva chiusura del giornale.

Moltissimi giovani hanno perso la vita per voler mostrare la verità, tutto rientra proprio in quel quadro che anche Gurbet aveva compreso per cui ogni cosa bella, ogni giustizia, ogni eroe passano per la sofferenza, una grande sofferenza.

Yasar Kemal disse una volta incontrandola "una donna all'interno della società kurda è responsabile del giornale. Veramente credo che i kurdi di oggi non siano gli stessi di una volta. Il mio più grande amico, Musa Anter (uno srittore kurdo, assassinato), che mi era molto vicino, sognava proprio questo".

Dopo la chiusura di Ozgur Gundem e dopo le repressioni e le difficoltà a vivere ovunque in Turchia, lei pensò che non aveva significato rafforzare la realtà di uno stato fascista, perché in quel modo riteneva che niente potesse essere cambiato. Non aveva dubbi, era sicura, decise e se ne andò.

Frequentò l'accademia politica fra le donne del PKK e contemporaneamente, con la guerra che andava avanti, si addestrava e cresceva nell'esercito di liberazione. In quegli anni Gurbet studiò, scrisse, criticò e fu criticata, non smettendo mai di crescere.

Quando incontrò il Presidente del PKK, Abdullah Ocalan, egli le disse che era ormai il momento che il suo nome cambiasse, da Gurbet a Vatan(patria), diventando Vatanelli, era questo il senso della sua scelta.

Per Gurbet, infatti, questa era la strada che la portava verso la sua nostalgia, a colmare quella sottile e profonda mancanza che sentiva nel cuore. Da Comandante, Gurbet andava a combattere contro il nemico crudele, lo stesso che, quando era piccola, suo nonno gli raccontava. Il suo cuore era pieno di emozione, perché finalmente andare sulle montagne significava andare alla ricerca della libertà.

Una donna che sceglie la vita della militante e della guerrigliera, fa molte rinunce, la sua è una scelta difficile. Gurbet scrisse all'inizio della sua militanza "Da giovane avevo una storia d'amore, con un ragazzo che per le mie stesse ragioni è finito in prigione. I miei mi spingevano a sposarmi, ma io ho sempre odiato l'idea di diventare oggetto di qualcuno o che qualcuno lo potesse essere per me. Una persona che posso amare deve essere molto generosa, praticamente molto diversa da quanti vivono in questa società. Oggi, credo che per una donna che non sappia emanciparsi nella mente e nella vita, con una relazione di tipo caratteristico, significa morire, io non voglio morire in questo modo".

Quando Gurbet si trovava ancora all'università, amava essere una ricercatrice e si faceva affascinare dagli esperimenti, perché le erano utili ha dare soluzione alle domande cui non sapeva rispondere.

Come risponderebbe alle circostanze della sua morte? Come spiegherebbe il senso di essa? Gurbet è stata uccisa da un colpo inferto da un pesmerga del PDK, con le armi tedesche dei soldati turchi. Gurbetelli era un essere umano, una kurda e una donna, per questo è morta. Uccisa dalle armi antiuomo, per mano di un kurdo armato dai difensori della Repubblica turca.

Ferda, una sua compagna ha scritto di lei, "Ho visto Gurbetelli la mattina che è stata uccisa; abbiamo discusso molto della situazione della guerra, della stampa, delle martiri e dell'emancipazione della donna, non ho mai sentito parlare con così tanta felicità e riflessione. Dopo aver bevuto un te insieme, ci siamo dette arrivederci, è un'espressione che ci diciamo sempre, anche quando sappiamo che stiamo andando verso un luogo pericoloso, una battaglia difficile, la voglia e la speranza di andare avanti è sempre forte. Abbiamo vissuto molti distacchi, con le persone, gli amici e le amiche che amavamo molto, in questa guerra ingiusta e sporca, che opprime il popolo kurdo. Lo stato tedesco ancora produce le armi che vengono usate contro i kurdi, addirittura non le vende sempre, le regala anche. Le armi non hanno il cuore, Gurbatelli era una donna dal cuore grande e limpido, che è stata uccisa dalle armi tedesche".

Gurbetelli ogni giorno, fin dai tempi del giornale, fino all'accademia e alla guerra scriveva un diario (Sguardi), che è poi stato pubblicato, e che ogni ragazza, donna kurda del movimento e non legge con entusiasmo. L'amore è una felicità che divide per mille un piccolo seme. Prendersi la responsabilità di sofferenze grandi come le montagne, richiede alle persone di moltiplicarsi. Gurbet ci è riuscita, camminando si è liberata, è diventata bella ed è cresciuta.

È possibile che una persona non abbia un difetto, una persona così non ha difetti? Non è mai stata gelosa? Nel suo diario l'ha dichiarato con parole semplici: "sono gelosa dell'aquila, avrei tanto voluto volare, arrivare fino ad Amed (Diyarbakir), fermarmi sulla cima di un'alta montagna e guardare al fiume Murat (che passa nella provincia di Bingol), da là arrivare fino al Munzur e alle montagne di Dersim".

Conoscere Gurbet vuol dire conoscere la donna kurda che vive il periodo della trasformazione della donna kurda. Il suo diario non era solo suo, chiamava all'umanità, ai valori umani. Raccontava della nostalgia della nazione kurda, delle speranze, della rabbia, dell'amore, ogni riga scritta con sapienza è come un ricamo prezioso. Ogni sua parola è stata una trappola per il nemico, la sua lotta contro il nemico erano le sue parole. Non ha mai dimenticato di essere la nipote di Sersaid, suo nonno, e non ha mai dimenticato le parole del Presidente Apo, che la incitò a diventare Vatanelli.

Ogni volta che si prospettava una dura battaglia, Gurbetelli e le altre nascondevano sotto terra le proprie cose, ma soltanto due cose non poté mai nascondere: il suo diario e il velo bianco che sua madre le regalò. Un velo che custodiva gelosamente, perché l'odore di sua madre non scomparisse.

Leggere le pagine del suo diario permette di viaggiare con lei lungo il suo percorso, arrivare alla libertà e all'emancipazione, passando per la rivoluzione: "sulle montagne Gare a raccogliere i narcisi, lungo lo Zap fra i bucaneve, fra le grandi querce del Botan".

(Fonte: http://www.uikionlus.com/modules.php?name=News&file=article&sid=123)

Etichette: ,


15.10.07

 

Salari e pensioni più basse: ecco la differenza di genere


Le donne hanno salari più bassi e pensioni più esigue degli uomini. Una su cinque svolge un lavoro che richiede una formazione inferiore a quella che possiede. Un milione e 340 mila donne hanno un lavoro irregolare (parzialmente o del tutto sommerso). Il quadro nero emerge da un convegno dedicato al bollino rosa, l'attestato che il ministero del lavoro rilascia alle aziende pubbliche e private che dimostrano d'adottare pratiche «non discriminanti» verso le dipendenti. Per ora, «in via sperimentale», solo 36 aziende hanno aderito all'iniziativa. Scommettiamo una cifra che finché il bollino rosa non sarà congruamente incentivato, le aziende non sgomiteranno per ottenerlo. (m.ca.)

I dati inediti presentati al convegno «Stesse opportunità, nuove opportunità», organizzato dalla sottosegretaria al lavoro Rosa Rinaldi, riguardano il lavoro sommerso delle donne. Da un'indagine dell'Isfol (realizzata su un campione di 987 donne a Torino, Roma e Bari) risulta che è femminile il 47% del totale del lavoro sommerso e irregolare (la quasi parità è solo apparente, perchè le donne hanno un tasso di occupazione inferiore agli uomini e non sono presenti nell'edilizia, dove si addensa il lavoro nero). Al Nord la quota femminile del sommerso tocca il 64%, al Centro è del 50%, al Sud scende al 31%. Le variazioni geografiche si spiegano con l'alto numero delle badanti al Nord e con il forte tasso di lavoro irregolare maschile al Sud. Il 43% delle donne intervistate dichiara di lavorare in nero «per necessità», per mancanza d'alternative. Il 17% percepisce la sua situazione come «transitoria». Le restanti lavorano irregolarmente «per convenienza», per non perdere assegni familiari o sussidi).

Un'altra ricerca dell'Isfol evidenzia che in due anni la quota dei contratti a termine trasformati in assunzioni a tempo indeterminato è scesa dal 40 al 25%. La stabilizzazione arriva sempre più tardi (a proposito di «bamboccioni») e per le donne l'attesa è doppia rispetto agli uomini e la percentuale d'uscita dalla precarietà è più bassa.Il gap salariale donne-uomini va dai 3.800 euro netti l'anno per il lavoro dipendente a tempo indeterminato ai 10 mila per gli autonomi. La maternità toglie dal mercato del lavoro 1 donna su 10. Le donne sono il 76% dei pensionati al minimo (quelli che campano con 500 euro al mese) e il 64% di quanti ricevono una sola pensione (per un importo medio annuale di 7.300 euro). Solo l'1,2% delle donne ragginge i 40 anni di contributi, il 52% si ferma sotto i 20. Basta questo per definire un crimine alzare l'età pensionabile delle donne oltre i 60 anni.

«In Italia l'occupazione femminile presenta ancora forti fragilità», riassume Rosa Rinaldi. «Sono neccessarie politiche di conciliazione che favoriscano il lavoro delle donne e non ne penalizzino qualità e salario». Tra le politiche di conciliazione la sottosegretaria ne indica due realizzabili subito e con una spesa sostenibile: ampliare il sistema dei congedi parentali e il part time reversibile richiesto per la cura dei figli sotto i tre anni. Costo 370 milioni l'anno, da prendere dal fondo Inps per le «prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti», in cui confluiscono anche i contributi per la maternità. E' in attivo da anni, ma Tps ha detto no, nella finanziaria quei 370 milioni non ci sono. «Non mi arrendo», promette Rosa Rinaldi, «in tutte le sedi continuerò ad insistere perché il governo destini le risorse necessarie per incentivare congedi parentali e part time reversibile di cura». Quest'ultimo, va riconosciuto come «un nuovo diritto soggettivo».

(il manifesto, 13.10.07)

Etichette: , , ,


12.10.07

 

Nobel per la letteratura a Doris Lessing


Non era tra le favorite. Ma ce la ha fatta. E' l'undicesima scrittrice che entra nell'Olimpo dell'Accademia di Svezia. Definita di volta in volta marxista, femminista, anticolonialista, è stata tutto questo, ma rifiutando qualsiasi etichetta. (Maria Vittoria Vittori)

Non compariva il nome di Doris Lessing nell'elenco ufficioso dei candidati favoriti al Nobel per la letteratura. Tra i numerosi scrittori c'erano solo due nomi femminili: quelli di Margaret Atwood e di Joyce Carol Oates. Entrambe grandi scrittrici che avrebbero meritato il Nobel, ma la sua attribuzione a Doris Lessing, autrice che ha saputo attraversare un secolo intero di bufere politiche, sociali, ideologiche, di straordinari cambiamenti in ogni campo, mantenendo intatta la voglia di raccontarli e di raccontarsi, ci rende felici. Per più di una ragione. Perché, prima ancora di essere una grande scrittrice, è una persona che, all'interno di culture e movimenti disparati, ha sempre cercato una sua originale fisionomia sotto il segno della difficoltà e dell'opposizione.

Sarà forse perché è venuta al mondo in un anno particolare come il 1919, in cui «mezza Europa era un cimitero e la gente moriva a milioni in tutto il mondo»; sarà forse perché la mamma, Emily Maude Mc Veagh, infermiera di educazione vittoriana e moglie di Alfred Taylor, giovane bancario trasferito a Kermanshah, in Persia (due perfetti prodotti dell'Impero britannico) non le aveva ancora trovato un nome. «Sentendo che nessuno ci aveva pensato, il dottore si chinò sulla culla e disse conciliante: Doris?» così riferisce la Doris in questione, a quasi settant'anni di distanza, nel libro autobiografico Mia madre (Bollati Boringhieri, 1988), meditata revisione di un rapporto tra una madre e una figlia troppo diverse per capirsi davvero. Trasferitisi in Rhodesia nel 1925, i coniugi Taylor hanno idee chiare su Doris: deve crescere nel recinto dei "farmers", come una brava bambina borghese. Ma lei è da subito curiosa del mondo che la circonda, è avida di esperienze e vuole viverle, in un modo che la timorata infermiera Emily ritiene poco salutare. A quindici anni va via di casa, si impiega come telegrafista a Salisbury, si sposa e mette al mondo due figli.

Tutto quello che fa emana un sentore di scandalo: frequenta neri e sovversivi, entra a far parte di un gruppo comunista, si separa dal marito e si mette insieme, nel pieno della seconda guerra mondiale, a un'attivista politico tedesco di origine ebrea, Gottfried Lessing, assumendone il cognome quasi a ribadire il suo desiderio di essere al di fuori di ogni identità nazionale. Ibridazione sembra essere la sua parole chiave, e nella vita privata e nell'attività di scrittura: immersione nelle più svariate tematiche, fondendo tecniche e stili diversi. Decisamente le barriere non le piacciono, a cominciare da quelle dettate dall'affetto materno, tanto più oppressive proprio in quanto generate da un eccesso d'amore. Non è nemmeno adesso un discorso facile da affrontare, figurarsi tra gli anni Trenta e Quaranta, quando quella che Doris acutamente definisce la tirannia sentimentale materna era qualcosa di inavvertito come l'aria che si respira. Se Doris Taylor è nata in 22 ottobre del 1919, quella che noi conosciamo come Doris Lessing è nata nel 1950, quando, di nuovo libera da vincoli matrimoniali, si trasferisce a Londra e pubblica il suo primo libro L'erba canta storia di un rapporto controverso tra una donna bianca e un servitore di colore. «Ero nata dal mio stesso io, così mi sentivo», scrive nella parte conclusiva di Sotto la pelle , il primo volume della sua autobiografia (Feltrinelli 1994).

E questa donna appena nata all'autodeterminazione e alla consapevolezza di sé è una di quelle scrittrici "avide" che si sono soffermate con curiosità, con passione, con inesauribile desiderio di conoscere e di capire su ogni aspetto della vita. Davvero, «una narratrice epica dell'esperienza femminile», come recita la motivazione del Nobel. Ha analizzato i meccanismi coercitivi dell'educazione femminile e del matrimonio in Martha Quest (1952), che inaugura il ciclo I figli della violenza cui appartengono Un matrimonio per bene (1954), con riconoscibili riferimenti personali e Echi della tempesta (1958) il più autobiografico di tutti, in cui «c'è il gusto, il sapore, la consistenza, l'odore» del suo periodo di militanza comunista (gli ultimi due libri di questa serie, Landlocked e Four-Gated City , saranno pubblicati a breve da Feltrinelli, l'editore italiano della maggior parte delle opere dell'autrice).

Servendosi dello strumento privilegiato della short story, Lessing ha indagato con sensibilità e acutezza all'interno di mondi e culture ibride: nella Rhodesia, ancora colonia britannica e terra di contrasti razziali, con i Racconti africani , che le valsero nel 1956 l'ostracismo di Zimbawe e Sud Africa, e in una Londra multietnica e tuttavia discriminatoria con i Racconti londinesi (1987). La formazione femminile che necessariamente passa attraverso l'esperienza sociale, politica e culturale, è la struttura portante del Taccuino d'oro (1962) libro controverso e accolto con numerose critiche che finì per diventare, come commenta l'autrice con una punta di divertita ironia «la Bibbia del movimento delle donne»; il rapporto madre-figlio, una delle spine per lei più pungenti, è sottoposto a una nuova interpretazione in Il quinto figlio (1988) storia di un bambino diverso, "mutante", che fa saltare ogni equilibrio all'interno di una tranquilla famiglia borghese. Romanzo particolare, perché testimonia della passione di questa scrittrice - che pure si può considerare per molti aspetti una maestra del realismo - per l'elemento visionario. Un elemento costitutivo della fantascienza, genere a torto considerato minore, a cui si accosta fin dagli anni Settanta, con opere come Memorie di una sopravvissuta (1974) e Mara e Dann (1979) entrambe pubblicate da Fanucci, in cui si fondono alcuni dei suoi temi prediletti: il rifiuto di ogni tipo di convenzione e discriminazione, l'indimenticato paesaggio africano, la considerazione speciale dell'adolescenza, cui è demandato il compito di rifondare su nuove prospettive la vita associata.

Non solo agli adolescenti e alle donne in formazione si rivolge l'attenzione di Doris Lessing: un posto particolare è riservato a un argomento spinoso e per molti versi ancora interdetto come la vecchiaia. Questo suo interesse si manifesta nel 1984 con il romanzo Se gioventù sapesse ; prosegue con Amare, ancora storia di passioni teatrali e amorose e si conclude (per il momento) con il racconto intitolato Le nonne (nell'omonima raccolta del 2003), storia di affetti che oltrepassano le convenzioni legate all'età. Se ancora restava, nella nostra cultura occidentale, quest'ultimo tabù relativo al sesso e all'amore nella vecchiaia (e soprattutto dal versante femminile), negli ultimi anni Doris Lessing si è dedicata a sfatarlo, con quella sua particolare dote da lei definita «una quieta ostinazione nell'immaginare il futuro».

(Liberazione.it, 12.10.07)

Etichette: , ,


11.10.07

 

La vita sotto il burqa


La decisione recente del prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, di permettere l'uso del burqa, così come quella, di tre anni fa, del sindaco della stessa città, Giancarlo Gentilini, di arrestare le donne che lo portano è innanzitutto un fatto di inciviltà, che riguarda entrambi gli atteggiamenti. Di cui sono sempre vittime le donne. Vittime dell'arroganza e dell'intolleranza dei maschi, siano essi italiani o dei loro paesi di origine. (Giuliana Sgrena)

Sulla decisione del prefetto Capocelli si sono scatenate ieri sul web le reazioni dei lettori del Corriere della sera (che riportava la notizia in prima pagina). Cui sono seguite le prese di posizione dei politici. Non si tratta però di contrapporre Capocelli a Gentilini, magari sollevando il problema della sicurezza, come fa la destra, ma di difendere la dignità delle donne contro l'ignoranza di chi attribuisce al burqa un significato religioso o condanna le donne alle quali il burqa viene imposto definendola una «mascherata» di Carnevale.

Basterebbe leggere uno dei libri che vanno per la maggiore di questi tempi - «I mille splendidi soli» di Hosseini - per capire l'uso del burqa nel paese di origine, l'Afghanistan, negli anni sessanta e settanta. Non di religione si tratta ma di oppressione patriarcale. La più tremenda, che relega le donne dietro una grata, attraverso la quale guardare il mondo a quadretti senza essere osservate. Mentre nel mondo islamico è aperto lo scontro sul velo: è islamico oppure no, e nemmeno il Corano è sufficiente a redimere il quesito, in Italia si avalla come dovere religioso l'uso del burqa. Che non solo non è citato nei testi religiosi, ma proprio in Afghanistan era stato abolito fin dal 1923 dal re Amanullah con la nuova costituzione che doveva servire a modernizzare il paese anche attraverso l'istruzione delle donne e l'abolizione della poligamia. Naturalmente il re Amanullah aveva scatenato le ire dei fondamentalisti che l'avevano estromesso dal trono e solo nel 1959 le donne della famiglia reale, ai tempi di re Zahir Shah, si sarebbero presentate in pubblico a capo scoperto. A riportare in voga, si fa per dire, il velo e anche il burqa ci avrebbero pensato i fondamentalisti mujahidin e i taleban.

La decisione del prefetto di Treviso, appoggiata purtroppo anche dalla ministra Rosi Bindi (salvo smentite) e da altre parlamentari, è basata evidentemente su un relativismo culturale molto diffuso anche nella sinistra - ma non riguarda la ministra Barbara Pollastrini, che si è espressa decisamente contro il burqa - che vuole condannare popoli e soprattutto le donne di paesi del sud a subire le imposizioni più conservatrici e tribali di alcuni leader religiosi o politici locali.È eramente molto triste dover ammettere che non solo la guerra in Afghanistan non ha liberato le donne afghane dal burqa - e questo ce lo aspettavamo - ma che la talebanizzazione è arrivata anche in Italia. Forse anche per questo non alziamo un dito contro le nuove milizie religiose irachene che uccidono le donne che si rifiutano di portare un velo che non avevano mai portato. E che dire della nuova polizia religiosa che controlla la moralità dei comportamenti dei palestinesi non solo nella Gaza di Hamas ma anche nella Ramallah di Fatah? Il nostro sostegno a queste donne deve partire da subito, da qui, aiutando quelle che vivono nel nostro paese a sottrarsi al giogo dell'oppressione e della violenza, di cui, altrimenti, diventiamo complici.

Non è accettando il burqa che riconosciamo un diritto alle donne: sottolineando la loro «diversità» santifichiamo la loro ghettizzazione. E quando si parla di libera scelta occorrerebbe tenere in considerazione che l'unica scelta di cui godono queste donne è quella di portare il velo e molte di loro hanno così interiorizzato l'idea che la loro sicurezza passa attraverso l'annullamento del proprio corpo che non si sono ancora liberate del burqa.

(il manifesto, 10.10.07)

Etichette: , , ,


10.10.07

 

Francia: un Pacs ogni quattro matrimoni


In Francia sempre più coppie scelgono questa unione: oltre 77 mila nel 2006. Soprattutto eterosessuali

Un successo, stando ai dati. A otto anni dall'introduzione dei Pacs in Francia, sono sempre di più le coppie d'Oltralpe che formalizzano la loro unione attraverso i Patti Civili di Solidarietà (la scheda). La crescita, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia transalpino (leggi il rapporto in pdf) e ripresi da "Le Monde", è del 20% annuo. Tanto che nel 2006 sono oltre 77.000 coppie, al 93% eterosessuali, che hanno scelto questa opzione. Ormai per ogni cento matrimoni celebrati, vengono siglati 25 Pacs. Nel 2000 erano 5.

COPPIE GAY - Contrariamente a quanto paventato dai suoi oppositori, in totale solo il 12% delle coppie che ha firmato un Pacs sono formate da persone dello stesso sesso (e nel 2006 la percentuale è scesa al 7%). Dopo il picco dei primi anni, con oltre il 40% dei Pacs firmati, le coppie gay che lo siglano sono ora in calo. La percentuale delle separazioni delle coppie eterosessuali dopo sei anni è molto simile a quello delle coppie sposate: il 18,9% contro il 18,2%. L'età media di coloro che hanno contratto quel tipo di rapporto è diminuita rispetto ai primi anni e si è stabilizzata a 32,6 anni per gli uomini e a 30,4 per le donne. Questa età resta più alta per i partner dello stesso sesso. Le differenze territoriali sulla frequenza dei Pacs si sono attenuate, ma Parigi non fa testo perché ha un tasso di Pacs per abitante nettamente più alto che negli altri dipartimenti.

VANTAGGI - Il successo del Pacs, spiega il quotidiano francese, è dovuto «alla sua flessibilità, alla sua apertura alle coppie omosessuali e anche ai vantaggi fiscali che comporta». In Francia esistono tre tipi di unioni: le unioni libere, che non comportano diritti né doveri; il Pacs, firmato davanti al cancelliere del Tribunale e che impone alle parti un «aiuto mutuo e materiale» e può essere sciolto con una semplice dichiarazione; il matrimonio, firmato davanti al sindaco, che obbliga a un dovere di «fedeltà, di soccorso e di assistenza», stabilisce la presunzione di paternità nei confronti dei figli nati durante il matrimonio e non può essere sciolto che al termine di una lunga procedura giudiziaria.

(Corriere.it, 10 ottobre 2007)

Etichette: , ,


9.10.07

 

Occupazione femminile


Record europeo (negativo) nel Meridione (A. D'Arg.)

Record europeo per il nostro Meridione: meno donne al lavoro. Lo dice Eurostat, l'Ufficio statistico della Ue, presentando l'annuario regionale 2007 che fotografa la popolazione, il mercato del lavoro, l'economia, i servizi e l'istruzione delle 268 regioni che compongono i 27.

Il tasso di occupazione femminile - dati del periodo 2001-2005 - tocca il fondo in Puglia, con il 27%; poco meglio Campania e Sicilia, ferme al 28%, e Calabria (31%). Dall'altro lato c'è l'Emilia Romagna con il 60%, appena tre punti sopra quel 57% che era l'obiettivo da raggiungere in tutta la Ue.

Delle 15 regioni che si fermano sotto il 40%, 7 sono nel sud Italia, 3 in Francia (territori d'oltremare), 2 in Grecia e in Spagna e la 15ma è Malta, Olanda e Danimarca. Altro dato allarmante è quello dell'aumento della disoccupazione: in Calabria, Campania, Sicilia e Sardegna è cresciuta di oltre il 5% sempre tra il 2001 ed il 2005.

(il manifesto, 6.10.07)

Etichette: , , ,


 

«La verità su Ciudad Juarez»


Marisela Ortiz è a Perugia per denunciare il «femminicidio» delle giovani donne che lavorano nelle maquiladoras al confine tra Messico e Usa. Nel silenzio del mondo. (Alessandro Braga).

I capelli neri, raccolti dietro la testa in una coda di cavallo. Lo sguardo fiero, dice decisa: «Ho paura, mi sento abbandonata dalla mia comunità, ma sento l'appoggio di tanta gente in giro per il mondo. Per questo continuerò, fino alla fine». E fino alla fine significa finché non si saprà la verità su quanto è accaduto a centinaia di donne a Ciudad Juarez, una cittadina al confine tra Messico e Stati Uniti, dove dal 1993 sono state rapite, violentate, torturate e uccise oltre mille donne. A parlare è Marisela Ortiz, insegnante, psicologa e una delle fondatrici di Nuestras Hijas de regreso a casa, un'associazione che si batte per i diritti civili e perché venga a galla la verità riguardo ai fatti di Ciudad Juarez. Domani parteciperà alla Perugia-Assisi.

Perché sei in Italia?

Sono qui per denunciare i crimini impuniti che avvengono dal 1993 nella mia città, Ciudad Juarez, e organizzare un movimento di solidarietà per chi si batte da anni perché si sappia la verità.

Cosa succede esattamente nella tua città?

A Ciudad Juarez dal 1993 avvengono crimini che non sono riportati in nessun elenco ufficiale. Giovani donne, che vengono da noi per lavorare nelle maquiladoras, vengono rapite, violentate, torturate e uccise. I loro corpi straziati solitamente vengono ritrovati qualche tempo dopo, spesso è difficile addirittura il riconoscimento. Si tratta di un vero e proprio «femminicidio», una violenza perpetrata nei confronti delle donne che mira al loro annientamento dal punto di vista morale, psichico e fisico.

Quanti sono i casi?

Circa un migliaio, ma non vorrei soffermarmi sui numeri. Il problema non sono tanto i numeri ma il retroterra culturale e sociale che permette questi crimini e la loro impunità. Inoltre non esiste un elenco ufficiale. Molte donne non sono più state trovate, e la maggior parte dei crimini sono stati derubricati a violenza domestica o passionale, riducendo così il numero totale dei crimini. Molti casi poi, nonostante sui corpi ritrovati ci fossero evidenti tracce di violenze e torture, non sono stati riconosciuti come «femminicidio». Il governo dello stato di Chihuahua riconosce ufficialmente 120 casi di femminicidio, mentre gli altri casi, come dicevo, vengono ridotti a semplici omicidi passionali o domestici. E nei casi di non riconoscimento dei corpi non si parla di femminicidio. Per non parlare poi dei casi in cui si tirano in ballo le «cause accidentali».

Il governo messicano cosa fa?

Gli ultimi due governi che si sono succeduti hanno trattato la questione in maniera a dir poco infame. Hanno addirittura cercato di far ricadere le colpe di quanto accaduto addosso ai familiari e alle vittime stesse. Gli stessi mezzi di comunicazione di massa sono così corrotti che danno delle vicende una visione totalmente distorta. Pensate che spesso mi cercano per interviste, salvo poi ridicolizzare le mie parole e farmi passare agli occhi della pubblica opinione come una bugiarda che vuole screditare l'immagine del suo paese. Il governo attualmente in carica ha fatto qualche passo avanti, ma solo dal punto di vista sociale e non giuridico. Ha cercato di affrontare il problema come se fosse un problema di ordine pubblico, ma non è così. Noi vogliamo che ci siano delle indagini serie e che si arrivi all'individuazione dei colpevoli.

E le autorità giudiziarie?

Ultimamente siamo riuscite a parlare con la procuratrice Patricia Gonzales, ma solo grazie all'intermediazione dell'ambasciata belga. Per avere udienza dobbiamo utilizzare canali internazionali. Qualche sforzo per arrivare alla verità viene fatto, ma spesso è vanificato dalla negligenza, o peggio dalla complicità, dei funzionari che dovrebbero scoprire la verità.

Intendi la polizia?

Sì. Abbiamo fatto numerose denunce in cui si facevano esplicitamente i nomi di agenti che durante le indagini si erano dimostrati negligenti se non peggio. Ma, invece di una punizione esemplare, non è successo nulla. E questo li ha rafforzati nella loro posizione di impunità. E' ancora più grave se si pensa che alcuni fatti risalgono a 10, 12, addirittura 14 anni fa. E nessuna giustizia per queste ragazze è ancora arrivata. Faccio un esempio che spiega bene la situazione: qualche mese fa Maria Luisa Andrade, la sorella di una delle ragazze assassinate, ha trovato due agenti che si stavano occupando del caso e ha chiesto notizie sulle indagini. Per tutta risposta si è vista minacciata. Le hanno detto che se non avessimo ritirato le denunce nei confronti dei loro colleghi l'avrebbero uccisa.

Ma l'amministrazione comunale non fa niente?

Il sindaco ha dichiarato che certi fatti, che avvengono tra le quattro mura domestiche, sono inevitabili. E recentemente ha anche detto che chi come noi sostiene che si possono prevenire, evitare e punire, sono persone bugiarde e false, che vogliono il male della loro città. Faccio un altro esempio: una donna assalita dal proprio marito era riuscita ad avvisare un parente, una zia, che ha subito chiamato la polizia. La pattuglia è arrivata un'ora dopo che la ragazza era stata uccisa. Alla gente che domandava perché di questo ritardo è stato risposto che il sindaco aveva ordinato di pulire tutte le automobili della polizia perché ci sarebbe stata l'inaugurazione dell'Opera Real, la più importante realizzazione del suo mandato. Quindi anche da questo punto di vista non c'è nessun aiuto, anzi.

Anzi...?

Ultimamente abbiamo saputo dell'esistenza di un piano per «ripulire» l'immagine della città. E per loro «ripulire» significa far sapere che a Ciudad Juarez va tutto bene, che non succede nulla. Insomma insabbiare tutto, semmai accusare noi che insistiamo nel chiedere la verità di voler «sporcare» l'immagine della nostra città per chissà quali ragioni. Noi siamo le prime a voler «ripulire» la città, ma per amore della giustizia e della verità, per un miglioramento reale delle condizioni sociali della popolazione e non certo per le ragioni economiche che sottendono questo piano. Ci sembra assurdo che si spendano 10 milioni di pesos in queste campagne, era meglio se si fossero spesi per evitare i crimini e arrivare alla verità.

E la comunità internazionale cosa fa?

Abbiamo sottoposto la questione all'attenzione del parlamento europeo. C'è un parlamentare catalano che chiede che i rapporti con il Messico siano vincolati al rispetto da parte di quest'ultimo di tutti i diritti umani. E anche il parlamento italiano sta portando avanti una proposta presentata da alcune parlamentari. Per questo alcuni deputati messicani stanno cercando di bloccare la proposta dell'Ue portando avanti una campagna di diffamazione nei nostri confronti: dicono che siamo false, che tutto va bene e che nella maggior parte dei casi le indagini sono arrivate alla soluzione.

Siete isolate e ostacolate da tutti. Avete ricevuto minacce?

La sede della nostra associazione è stata più volte assaltata e distrutta e sono stati trafugati numerosi documenti che dimostravano la negligenza degli agenti.

Anche tu sei stata minacciata?

Più di una volta. L'ultima lo scorso agosto. Ero in macchina con le mie due figlie, ci hanno sparato due colpi di pistola. Non ci volevano uccidere, voleva essere un avvertimento.

Hai paura?

Ho paura per me, per le mie compagne e per la mia famiglia. E' mia intenzione far sapere a tutti che se dovesse succedere qualcosa a me, alla mia famiglia o alle mie compagne riterrò responsabile il governo dello stato di Chihuahua.

Hai mai pensato di mollare?

Mai. Mi sento abbandonata dalla mia comunità, ma sento anche l'appoggio di tanta gente in tutto il mondo. Per questo continuerò finché la verità non verrà a galla.

(il manifesto, 6.10.07)

Etichette: , ,


4.10.07

 

Aborto in forte calo tra le italiane?


Relazione al Parlamento del ministro Livia Turco: ''E' sceso del 60% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all'Ivg, ma è in crescita tra le straniere''. E avverte: ''Non serve una modifica della legge 194''.

Roma, 4 ott. (Adnkronos Salute) - L'aborto scende tra le italiane ma sale tra le cittadine straniere. E' questo l'aspetto più evidente che emerge dalla Relazione annuale sull'attuazione della legge 194/1978 ('Norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza'), che contiene i dati preliminari per l'anno 2006 e i dati definitivi per l'anno 2005. Il rapporto è stato inviato oggi dal ministro della Salute Livia Turco al Parlamento.

I dati relativi al 2006 - come sottolineato nella relazione - con un totale di 130.033 Ivg evidenziano un ulteriore calo del 2,1% rispetto al dato definitivo del 2005 (132.790 casi) e un decremento del 44,6% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto ricorso all'aborto (234.801 casi). Tra le italiane l'aborto è sceso di ben il 60% rispetto al 1982, ma il ricorso all'Ivg è cresciuto tra le cittadine straniere. Sono loro a rappresentare il 29,6% del totale. Il tasso di abortività (numero delle Ivg per 1.000 donne in età feconda tra 15-49 anni), l'indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all'IVG, nel 2006 è risultato pari a 9,4 per 1.000, con una diminuzione del 2,2% rispetto al 2005 (9,6 per 1.000) e del 45,3% rispetto al 1982 (quando questo indice si attestava sul 17,2 per 1.000).

Negli ultimi dieci anni - sottolinea il ministro nella relazione al Parlamento - si è invece triplicato il numero degli interventi effettuati da donne con cittadinanza estera. Siamo infatti passati da un'incidenza del 10,1% del 1996 al 29,6% del 2005, con una crescita del 66%. Questo fenomeno influisce sull'andamento generale dell'Ivg in Italia, determinando una stabilità nel numero totale degli interventi e nascondendo di fatto la diminuzione presente tra le sole donne italiane. Infatti, se si considerano soltanto le cittadine italiane, i casi di Ivg nel 2005 scendono a 94.095, con una riduzione di ben il 60% rispetto al picco del 1982. Tale riduzione è risultata più rapida nelle donne istruite, nelle occupate e nelle coniugate, a dimostrare l'aumentata capacità e consapevolezza delle donne e delle coppie nell'adozione di metodi per la procreazione responsabile. "Fondamentale a questo scopo - sottolinea il ministero della Salute - il ruolo svolto dai consultori familiari, in linea con quanto previsto dal Progetto Obiettivo materno infantile". Da rilevare infine che la stragrande maggioranza delle Ivg (97,3%) avviene entro i primi 90 giorni, mentre la percentuale di Ivg dopo la ventunesima settimana di gestazione è molto limitata (0,7%).

Etichette:


This page is powered by Blogger. Isn't yours?

"La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale"

(Camilla Ravera - L’Ordine Nuovo, 1921)

--------------------------------------

Sciopero generale, subito!

Stop agli omicidi del profitto! Blocchiamo per un giorno ogni attività. Fermiamo la mano assassina del capitale. Organizziamoci nei posti di lavoro in comitati autonomi operai con funzioni ispettive. Vogliamo uscire di casa... e tornarci!

--------------------------------------