28.3.08

 

Sommosse di Torino contro Giuliano Ferrara


Il coordinamento di donne "Sommosse-Torino" oggi pomeriggio, 27 marzo, ha dato vita a un presidio spontaneo in piazza Castello, ultima tappa in ordine di tempo della presentazione della lista elettorare di Ferrara "aborto? no grazie!".

In una piazza blindata per garantire lo svolgersi di un comizio che si è in realtà configurato come una conferenza stampa di poco più di 15 minuti data la totale assenza di pubblico (per evitare il confronto con la piazza vuota e ostile Ferrara ha evitato il palco già allestito e si è rintanato sotto i portici con i soli giornalisti e la scorta) abbiamo rivendicato ancora una volta, così come già avvenuto in altre città, che le uniche ad avere diritto di parlare e decidere sul corpo femminile sono le donne e che non tolleriamo campagne elettorali giocate sulle nostre vite.

Il tentativo di Ferrara di acquisire consensi si è rivelato vano se non fosse per l'attenzione che gli viene tributata dai media sempre pronti a prestare attenzione persino ad un comizio inesistente.

Al palco vuoto di Ferrara e alla "sua" piazza deserta, noi contrapponiamo i percorsi di autodeterminazione che molte femministe e lesbiche stanno costruendo e che hanno portato negli ultimi mesi a grandi mobilitazioni, dal 24 novembre agli 8 marzo in tutte le città: a Torino le nostre strade si sono riempite di 10.000 corpi e voci che non possono essere messi a tacere dagli strepiti di ingombranti personaggi che cercano di invadere le nostre vite.

Oggi, nonostante la pioggia e nonostante l'atteggiamento arrogante della polizia, in tante abbiamo gridato a Ferrara che su maternità, contraccezione, aborto la scelta è solo nostra e non tolleriamo dictat e strumentalizzazioni elettorali da nessuno!

di seguito il volantino distribuito, x contatti 3488528337, 3405247864.

"SUL NOSTRO CORPO DECIDIAMO NOI!"

Nel 1978, in seguito ad anni di lotte per l'autodeterminazione femminile, viene approvata la legge 194 per regolamentare le interruzioni di gravidanza. La 194 è una vittoria per le donne che vedono finalmente riconosciuta la possibilità di decidere autonomamente sul loro corpo senza dover mettere in gioco la propria vita sui tavolacci di un ambulatorio clandestino; ma più in generale è una vittoria per tutt* coloro che ritengono che a decidere sulla sessualità e sugli aspetti più intimi dell'esistenza non dovrebbero essere le gerarchie ecclesiastiche.

Questa legge è un primo e minimo passo (a cui nella realtà ben pochi ne sono seguiti) per riconoscere alla donna un ruolo diverso nella società, svincolandola dall'unico ruolo in cui per anni è stata relegata: quello di generare figli indipendentemente dai suoi desideri. In tutti questi anni gli attacchi alla libertà delle donne di decidere sul proprio corpo non sono venuti meno. Ci hanno pensato le gerarchie ecclesiastiche, i gruppi di "estremisti per la vita", come i clerico-fascisti del "movimento per la vita", che si sono subdolamente intromessi negli ospedali e nei consultori e, con farseschi strumenti di disinformazione hanno da sempre attuato un lavoro di intimidazione e colpevolizzazione contro quelle donne che, dovendo ricorrere ad un'interruzione di gravidanza, si sono trovate in una situazione ancor più difficile e dolorosa.

Negli ultimi anni tuttavia lo scenario politico ha svoltato a loro favore, trovando appoggio in una trasversale presenza fondamentalista-cattolica all'interno di ogni schieramento politico; dalle dame in cilicio del centro-sinistra al buon vecchio Bondi, si è innescata una corsa al compiacere le sempre più retrograde volontà vaticane: passando da una legge del tutto insensata sulla fecondazione assistita, attraverso l'impossibilità di riconoscere le coppie la cui sessualità non è conforme ai canoni cattolici, si è giunti alla sferzata finale sull'onda della provocatoria, quanto opportunistica, "moratoria sulla pena d'aborto" proposta da Giuliano Ferrara.

Nella sua proposta Ferrara definisce la pratica dell'interruzione volontaria di gravidanza "un fenomeno mostruoso per quantità e genocidi, un fenomeno aberrante per qualità sessista ed eugenetica a sfondo razzista, una pulizia etnica sistematica, soppressione violenta degli esseri umani concepita come strumento di pianificazione familiare e di utilitarismo eugenetico transumano". E sempre secondo Ferrara la moratoria si configurerebbe quindi come "la scelta di rendere chiaro, di formalizzare filosoficamente e giuridicamente, e anche eticamente", questa risposta di rifiuto e opposizione alla pratica dell'aborto. Nel testo di Ferrara è sottolineata l'inesistenza di un reale soggetto decisionale femminile, condannando la donna a scomparire dietro la retorica mediatica di una "vita" virtuale e divina, svincolata dai desideri e dalle priorità terrene. L'autodeterminazione viene definita "nichilista e autolesionista" come ad indicare il vuoto che le gerarchie ecclesiastiche associano alla donna (un vuoto da colmare unicamente con i figli) e, come per esplicitare che le donne, autodeterminandosi, vanno a ledere un presunto ordine naturale delle cose, sfidando la natura stessa della vita umana. Su questa scia altri ignobili attacchi sono giunti per esempio dalle amministrazioni regionali, come in Lombardia dove, dopo aver negato il diritto all'assistenza a chi non pratica una sessualità conforme alle norme morali, la Regione ha approvato una gravissima regolamentazione riguardo l'aborto terapeutico: da ora in poi non sarà più praticato oltre le 22 settimane e tre giorni dal concepimento del feto, invece delle 24 settimane generalmente accettate dai medici e previste dalla legge. Giusto a ribadire la minore valenza della vita della donna rispetto a quella del concepito.

E' davvero incredibile e davvero poco tollerabile che ancora qualcuno tenti di mettere in discussione la legalizzazione dell'aborto e che si parli delle donne come di menomate mentali non in grado di intendere e di volere, incapaci di gestire le proprie scelte responsabilmente o addirittura come delle mostruose omicide che senza scrupoli premeditano l'assassinio di ciò che potrebbe/dovrebbe diventare un nuovo essere umano. Se non bastasse, il concetto di autodeterminazione della donna, un'idea (nonché una pratica) che parrebbe assodata e condivisa dopo decenni di faticose lotte, viene ora riletta e interpretata in chiave ideologica, come fosse una pretesa abusiva o un'invenzione e non un diritto.

E' chiaro inoltre che qui non è in gioco solo l'aborto ma anche il controllo della fertilità e il diritto alla sessualità scissa dalla procreazione. Tre cose che evidentemente ancora oggi, agli uomini e alla Chiesa, non piace che vengano gestite dalle donne. Eppure, che piaccia o no agli atei devoti e alle dame in cilicio, la decisione spetta solo alle donne e a nessun altro. Per millenni alle donne non è stato concesso di decidere se e quando procreare. Da quando sono stati inventati i metodi di controllo delle nascite o i metodi contraccettivi, le donne hanno invece scoperto come evitare di fare figli contro la loro volontà, ma soprattutto hanno riscoperto il gusto di volere dei figli, di desiderarli veramente. Il fatto che i metodi anticoncezionali siano tanto invisi al Potere clericale e non solo, dimostra che ciò che dà fastidio è proprio il fatto che a controllare la procreazione sia la donna. Coloro che parlano di difesa della Vita e si flagellano con il cilicio per difendere l'embrione sono quelli che poi sostengono le guerre di religione (spesso nella presunta difesa delle donne islamiche) e segretamente vorrebbero abortire gli immigrati, le lesbiche, gli omosessuali, forse anche i comunisti. Questi filoembrionisti difendono a tal punto la Vita, quella con la V maiuscola, che non chiedono nemmeno la moratoria sulla guerra, che di vite ne falcia a milioni. Non propongono una moratoria sulle armi convenzionali e non convenzionali, sulle mine antiuomo, sul fosforo bianco. Morti necessarie si dice, incidenti, effetti collaterali: il prezzo da pagare per difendere la tranquillità e il benessere delle nostre metropoli occidentali da temibili terroristi. Figuriamoci poi se in queste coscienze illustri crea qualche preoccupazione filosofica-etico-giuridica, il fatto che migliaia di persone all'anno muoiano sul posto di lavoro. Morti bianche si dice, morti legalizzate in nome di un profitto produttivo che ha la meglio sulla vita di noi tutti.

Dobbiamo opporci con forza a questo clima e mobilitarci tutte insieme per difendere il nostro diritto all'autodeterminazione. Contro l'ipocrisia di chi nasconde dietro una Vita virtuale la propria velleità egemonica sui corpi e sulla sessualità.

Sommosse-Torino

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21.3.08

 

Presidio femminista a Perugia


Basta con le menzogne! La verità è rivoluzionaria!

Il 18 marzo a Perugia, in occasione dell’udienza preliminare per il femminicidio di Barbara Cicioni, decine di donne (40 - 50) erano presenti al presidio fuori del tribunale. Presidio che dalle ore 9.00 (momento in cui Spaccino è entrato in aula) si è protratto fino alle 13.00. (Riceviamo e pubblichiamo)

C’erano il Sommovimento Femminista di Perugia e la Rete delle donne umbre, con striscioni e cartelli contro la violenza sulle donne e la “sacra famiglia”, teatro di tragedie come quella di Barbara Cicioni e più in generale di violenza sulle donne. Nei volantini e negli interventi al megafono si denunciavano la classe politica istituzionale e i media, per aver instaurato un clima di paranoia securitaria e razzista sulla nostra pelle e in nostro nome, rafforzando parallelamente la politica della centralità della famiglia eterosessista e patriarcale in ossequio ai diktat vaticani e in oltraggio al movimento femminista e lesbico che il 24 novembre si è espresso in modo radicale e inequivocabile contro queste misure familiste e securitarie e contro ogni strumentalizzazione della nostra lotta. “SICURE? DA MORIRE! … LA SACRA FAMIGLIA UCCIDE” recitava il nostro striscione, “spezza le catene del patriarcato! La sacra famiglia ha ucciso Barbara, uccidi la sacra famiglia!”, diceva un cartello. “BARBARA VIVE nella nostra rabbia e nella nostra lotta”, “l’assassino non bussa, ha le chiavi di casa”. Questi alcuni degli slogans scritti e urlati sotto il tribunale.

Tante donne si sono avvicinate al presidio per ringraziare le compagne per questa lotta e questa solidarietà e il momento più emozionante è stato quando la mamma di Barbara Cicioni, Simonetta Pangallo, è scesa in strada ad abbracciarci commossa.

Al processo sono state accolte tutte le richieste di costituzione in parte civile, presentate, oltre che dai genitori e dai figli di Barbara Cicioni, da 5 associazioni femminili, quali “Giuriste democratiche”, “Associazione Differenza Donna”, “Comitato 8 marzo”, “Ossigeno” e “Telefono rosa”. Tutte si sono dichiarate soddisfatte di questa giornata, che è stata, lo ricordiamo, una giornata di lotta e solidarietà.

Tutte tranne “Telefono rosa”, che pure ha visto accolta la sua costituzione in parte civile!

Stigmatizziamo l’atteggiamento di quest’associazione verso il movimento femminista. Conosciamo bene le sue posizioni rispetto alle politiche securitarie e familiste, i suoi appoggi presso le massime istituzioni, il suo ruolo di ammortizzatore sociale in seno alle donne e alla "sacra famiglia", i privilegi finanziari di cui gode e le sue conseguenti prese di posizione rispetto alla manifestazione del 24 novembre. Qui ci limiteremo a fare un po’ di controinformazione su quanto si è detto e fatto a Perugia.

Sul presidio femminista del 18 marzo contro la violenza sulle donne e il patriarcato, la stampa locale ha parlato poco e male. In particolare il Corriere dell’Umbria si è distinto in questa operazione di censura, perché non solo ha dato spazio, su tutto l’articolo di Elio Clero Bertoldi, alla linea di difesa dell’ex marito di Barbara Cicioni, ma ha fatto di più, ha stravolto completamente il significato della presenza delle donne davanti al tribunale, che pure emergeva chiaramente dagli striscioni, dai cartelli, dai volantini e dagli slogans, dipingendole come una banda di forcaiole invasate, che dopo aver urlato qualche slogan contro Spaccino si sono dileguate.

L’operazione di misticazione è infatti proseguita con l’articolo di Ecbert, in cui si afferma, senza fare riferimenti diretti ai soggetti che si sarebbero dissociati dal presidio femminista:"Non tutti hanno condiviso -neppure tra le associazioni che si sono costituite parte civile- la manifestazione in piazza IV Novembre, organizzata da Sommovimento e Rete Donna” (signor giornalista, sii più preciso, il Sommovimento è Femminista e il presidio era in piazza Matteotti, sotto il tribunale) e immediatamente prosegue:“Poichè in un processo indiziario, come è l'attuale, in cui cioè non è evidente la prova della colpevolezza dell'imputato, che non ha confessato e anzi continua a proclamarsi innocente, la presunzione di innocenza -sempre d'obbligo- lo è tanto più. Mentre Roberto Spaccino veniva portato in aula una delle manifestanti, entrata nel palazzo di Giustizia, ha anche affermato ad alta voce: "E’ lui l’assassino?”

"Signor@ Ecbert , dobbiamo insegnarle noi che “E’ lui l’assassino?” non è un’affermazione ma una domanda? Ed è una domanda più che legittima, soprattutto quando è rivolta a pennivendoli come lei, sempre pronti a raccogliere le notizie fresche fresche di Procura prima che vengano notificate agli stessi indagati, sempre pronti a sbattere i “mostri” in prima pagina terrorizzando la popolazione e ungendola con il vostro bisogno di securitarismo. Forse che la presunzione di innocenza di cui parla non vale per tutti? Forse che la “certezza della pena”, tanto invocata da Telefono Rosa (che lei omette di citare nel suo articolo come unica associazione femminile che si è dissociata dal presidio femminista del 18 marzo, pur costituendosi parte civile), valga solo per alcuni?La nostra presenza in piazza era contro la violenza sulle donne e la famiglia patriarcale (BARBARA SIMBOLO DELLA LOTTA CONTRO LA VIOLENZA IN FAMIGLIA, titolava il Giornale dell’Umbria), ma era anche contro le politiche securitarie e familiste dei vostri padroni e di Telefono rosa, a cui il vostro giornale ha dedicato circa la metà dell’articolo pubblicato il 18 marzo.

In quell’articolo, la presidente dell’associazione Maria Gabriella Moscatelli, ricordando che “oltre a una donna è stato ucciso un bambino vivo che la povera Cicioni avrebbe dovuto dare alla luce” (quasi a voler dire che il reato più grave è stato quello di aver ucciso il feto -anche se è di 8 mesi è sempre tale- e non la madre, rievocando tra le righe il presunto reato di feticidio), si augura che il processo sia breve (e di conseguenza anche i tempi del risarcimento delle parti civili) e annuncia che il Telefono Rosa si costituirà d’ora in poi in tutti i processi analoghi. Quello che il giornalista del Corriere dell’Umbria ha omesso di raccontare in tutto questo è la nostra voce, la voce delle donne che sono scese in piazza per Barbara Cicioni e che Telefono rosa, per bocca del suo avvocato Maria Cristina Ciace, avrebbe voluto zittire.

A una nostra compagna infatti, la suddetta avvocata ha detto che il nostro presidio era controproducente perché la difesa poteva impugnare la legittima suspicione, cioè chiedere il trasferimento del processo perché celebrato in ambiente ostile all’imputato e i tempi del processo stesso si sarebbero dilatati. La compagna ha risposto che non eravamo lì a fare le forcaiole con Spaccino: nei nostri cartelli, nei nostri striscioni, nei nostri slogans non veniva mai nominato, eravamo lì a manifestare contro le violenze sessuali e le uccisioni delle donne, che sono quotidiane e il cui livello di intensità ha paragone solo con gli infortuni sul lavoro e gli omicidi bianchi e nella maggioranza dei casi si consumano in famiglia. Questa sacra famiglia tanto cara ai governi e alle istituzioni di destra e di sinistra per il suo ruolo di ammortizzatore sociale e di avamposto della reazione e dell’oscurantismo religioso. L’avvocata di Telefono rosa ha reagito inorridita e scandalizzata, riaffermando, quanto meno a titolo personale, la sacralità della famiglia tradizionale. Questi sono i fatti che si nascondono dietro l’ignobile articolo del Corriere dell’Umbria del 19 marzo.

Meno male che tutte le altre donne la pensavano diversamente!

A telefono rosa ricordiamo che il movimento femminista non ha bisogno del placet delle istituzioni e di altri servi del potere, ha teste, gambe e braccia per lottare in piena autonomia.

BARBARA CICIONI VIVE NELLA NOSTRA RABBIA E NELLE NOSTRE LOTTE!

Perché PER OGNI DONNA UCCISA, STUPRATA E OFFESA SIAMO TUTTE PARTE LESA!

Sommovimento Femminista Perugia

(Volantino per il presidio del 18 marzo:)

LA “SACRA FAMIGLIA” UCCIDE…

“…più della criminalità organizzata e comune. Il 31,7% delle uccisioni avvengono tra le mura domestiche, più del 68% delle vittime sono donne e il carnefice un familiare maschio o comunque un uomo che aveva rapporti con la vittima in 9 casi su 10 (marito, padre, fidanzato, fratello, vicino di casa ecc.). Il rischio più alto è per le inoccupate, tra i 25 ed i 54 anni…” (dal Corriere dell’Umbria di martedì, 11 marzo 2008)

Perugia, 25 maggio 2007. La “sacra famiglia” miete un’altra vittima, Barbara Cicioni, presa a pugni in testa e poi soffocata quando era nel letto, incapace di difendersi per la gravidanza avanzata e il diabete.

Ancora una volta l’assassino non bussa alla porta, ha le chiavi di casa!

Barbara Cicioni si è spenta il 25 maggio 2007, ma il suo assassinio era una morte annunciata, fatta di ingiurie quotidiane, percosse, violenze psicologiche nel corso dell’intera vita matrimoniale, con i figli piccoli costretti ad assistere ai continui soprusi e maltrattamenti nei confronti della donna da parte del marito e, a loro volta, minacciati di morte. A queste continue violenze, Barbara aveva reagito, aveva denunciato il marito e per un po’ era riuscita ad allontanarlo, ma poi ha continuato a subirlo perché “la famiglia deve restare unita” e in nome di questa “sacra famiglia” è stata uccisa.

Il marito, Roberto Spaccino, ammette di averla picchiata, ma nega di averla assassinata: “Mia moglie era incinta, non l’avrei mai uccisa”…

Già, perché l’uxoricidio è un reato, ma non il femminicidio e il valore della vita di una donna si misura in funzione del suo ruolo di “incubatrice”, moglie, madre al servizio del focolare domestico, sempre più spesso testimone passiva di violenze e abusi sessuali anche sulle proprie figlie/i.

La ‘strage’ quotidiana fatta di stupri e uccisioni contro le donne si consuma nella maggioranza dei casi in famiglia e ha fatto anche lunedì, 10 marzo, tre vittime a Taranto. Una donna e due figlie uccise a colpi di martello, non da uno sconosciuto per strada, possibilmente immigrato, ma dal capofamiglia. Un insospettabile professionista, una persona “per bene” di una famiglia “per bene e normale”, un chirurgo accusato di molestie sessuali nei confronti di una sua paziente, che ha voluto barbaramente punire le SUE donne per aver manifestato l’intenzione di separarsi da lui dopo una vita di litigi.

Ma in questo sistema sociale più le donne vengono violentate e uccise in famiglia e più la famiglia viene esaltata dai vari Ratzinger, Ruini, Casini, ecc., alimentando a livello di massa una ideologia maschilista e patriarcale in cui l'uomo consideri normale che la moglie, i figli siano sua proprietà e in cui non è ammissibile che la donna possa lasciarlo e autodeterminarsi, in cui la famiglia deve apparire all'esterno per bene e normale mentre cova al suo interno le peggiori brutalità. E’ in questo sistema sociale, che della violenza eterosessista si alimenta e produce, che si va rafforzando la politica della centralità della famiglia (fino al family day), del ruolo subordinato della donna in un clima da moderno medioevo, negando, di fatto, il diritto all’aborto, all’autodeterminazione ecc.. Se alle donne vengono negati i diritti basilari di decidere della propria vita, se la legge di uno Stato considera la sua vita meno di un embrione, è o no un’ inevitabile e logica conseguenza la ripresa del peggiore maschilismo nei rapporti uomo donna? E’ evidente il nesso tra questa condizione delle donne e le uccisioni, le violenze sessuali.

E’ questo stesso sistema sociale che genera violenza, che rinchiude le donne dentro le mura domestiche, dentro i loro mattatoi, che nega loro l’emancipazione per la mancanza di un reddito, che nega loro spazi di socialità dove potersi confrontare e aiutare, che offre loro una città blindata e desertificata, che alimenta paura e solitudine attraverso misure di controllo e securitarie di stampo fascista e razzista, senza dare alcuna risposta al bisogno diffuso e capillare di sicurezza sociale. Queste misure hanno un effetto diretto di incoraggiamento delle violenze sessuali a tutti i livelli: creano un clima oscurantista e di sopraffazione, creano città “sotto controllo” invivibili, in cui sono bandite, addirittura criminalizzate le normali libertà, la socialità tra i giovani, le donne, le persone.

C’è un rapporto diretto tra aumento delle misure di “sicurezza” e l’aumento degli stupri e dei femminicidi, tra la violenza dello Stato e quella della società.

BASTA VIOLENZA SULLE DONNE!

Nel nome di tutte le donne stuprate, uccise, oppresse, contro questa guerra di bassa intensità contro le donne rispondiamo con rabbia e determinazione

Martedì 18 marzo, ore 9.00, Presidio davanti al tribunale di Perugia, Piazza Matteotti, per l’udienza preliminare per il femminicidio di Barbara Cicioni

Sommovimento Femminista Perugia
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(comunicato stampa per il 18:)

Presidio

Matedì 18 Marzo alle ore 9 davanti al tribunale di Perugia, in Piazza Matteotti, per l’udienza preliminare per il femminicidio di Barbara Cicioni.

L’assassino non bussa ha le chiavi di casa!

Manifestiamo la nostra rabbia contro la “strage” quotidiana fatta di stupri e uccisioni contro le donne, una “strage” che si consuma generalmente in famiglia.

Proprio quella “sacra famiglia” tradizionale, eterosessuale e patriarcale che viene esaltata quotidianamente dalle istituzioni religiose, laiche e dai mass media.

Che cela vecchi ma sempre efficaci rapporti di potere e di dominio funzionali oggi alla riproduzione del sistema sociale neoliberale.

Che i governi di entrambi i maggiori schieramenti politici istituzionali si affannano a sostenere e a rafforzare attraverso misure familiste e securitarie.

Per ogni donna uccisa, stuprata, offesa siamo tutte parte lesa!

Saremo davanti al tribunale per denunciare e vigilare, perché non siamo più disposte a subire nessun tipo di giustificazione e sentenza sessista, né facili strumentalizzazioni da parte dei media e dei politici in grado di alimentare un pericoloso clima di paranoia securitaria e razzista.

Invitiamo tutte a partecipare all’iniziativa, perché solo la soggettività delle donne può contrastare questa violenza e costruire nuovi modelli di relazioni e convivenza.

Sommovimento femminista –PG-

Rete delle Donne –PG-
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(comunicato stampa dopo il 18:)

Il movimento femminista è contro il femminicidio, il Telefono Rosa è contro il movimento femminista!!!

Ieri 18 marzo in occasione dell’udienza per l’omicidio di Barbara Cicioni, la donna all’ottavo mese di gravidanza barbamente massacrata dentro la sua casa, il sommovimento femminista Perugia e la Rete delle donne Umbre hanno manifestato davanti al tribunale per ricordare come la violenza sulle donne oggi sia una sconvolgente realtà.

In tutto il mondo infatti, la prima causa di morte per le donne è proprio la morte violenta per mano maschile, tanto che oggi si parla ovunque di una vera e propria strage: il femminicidio.

I dati Istat nazionali hanno rivelato inoltre come la stragrande maggioranza di questi delitti, così come in genere delle violenze (violenze sessuali e percosse) si consumino proprio nella tradizionale famiglia. La stessa famiglia che al contrario viene fortemente sostenuta dalle politiche di governi di destra e di sinistra, ritenuta un luogo di imperturbabile pace e amore. La verità è che proprio dietro questa famiglia si celano rapporti asimmetrici di potere che hanno come conseguenza violenze e spesso proprio omicidi.

La presenza davanti al tribunale e in piazza ieri era proprio per ricordare tutte le vittime di queste silenziose stragi e per essere vicine in qualche modo alle donne che tutti i giorni ancora subiscono violenze.

Come movimento femminista non abbiamo passione per i tribunali, perchè siamo consapevoli che le “responsabilità personali” sono limitate ai contesti sociali e politici che ne sono complici, che le rendono possibili. Perché nessuna sentenza restituisce la vita, né sana le ferite, perché siamo naturalmente “diffidenti” delle istituzioni e dei suoi organi di gestione.

Per questo stigmatizziamo il comportamento di alcune associazioni femminili (e non femministe), in particolare Telefono Rosa, che ha la pretesa e l’arroganza di rappresentare tutte le donne, in un contesto come quello di un tribunale. Questa associazione si è infatti costituita parte civile nel processo per la Cicioni, (annunciando la sua presenza in futuri processi), ma ha anche denigrato le forme di lotta e solidarietà delle donne che erano presenti nel presidio davanti al Tribunale. Non permettiamo a nessuna di queste donne istituzionali e di potere di screditare il lavoro generoso di donne e femministe (senza percezione di oneri) che sono nelle strade, nelle piazze, e in tutti i luoghi in cui è possibile esprimere la soggettività femminile. Da parte nostra non deleghiamo a nessuna la nostra rappresentanza e la nostra voce, piuttosto siamo per la costruzione di percorsi di riappropriazione delle nostre vite, della nostra autodeterminazione e possibilità di scelta.

Sommovimento Femminista Perugia
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Per chi volesse dare un’occhiata alla rassegna stampa locale, è su questo indirizzo:
https://indyabruzzo.indivia.net/article/4632?author_name=Sommovimento%20femminista%20PG&comment_limit=0&condense_comments=false#comment5932 e vi trova anche parte di questo resoconto e il nostro precedente comunicato.

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20.3.08

 

In Italia la precarietà è donna


Condizioni peggiori rispetto ai ragazzi per le under 24, per le “sorelle maggiori”. Male anche le over 45. A distanza di un anno solo poco più di una su dieci arriva a un contratto stabile. Quasi tutte guadagnano meno di diecimila euro l’anno e poche diventano madre prima dei 34 anni. L’allarme lanciato dal Rapporto Ires Cgil. (Federico Pace)

Giovani ma anche meno giovani. Nella palude della precarietà ci finiscono soprattutto le donne. Tutte costrette a contratti instabili più di quanto non succeda ai loro colleghi uomini. Più della metà delle giovanissime occupate hanno un contratto atipico e lo stesso accade a quasi al 26 per cento delle “under 34”. Impieghi marginali e contratti di breve durata anche per le più adulte. Tutte con una probabilità inferiore a quella già bassa dei precari uomini di riuscire a trasformare il contratto atipico in un impiego stabile. A lanciare l’allarme della “precarietà rosa” è il Terzo Rapporto di Ires Cgil preparato dall’Osservatorio sul lavoro atipico e presentato oggi a Roma.

Le donne si ritrovano nella condizione di quell'atleta a cui, per colpa di ostacoli imposti solo a loro, non è data piena possibilità di vincere la corsa. Se mai viene concesso loro di correre. A loro viene riservata una durata contrattuale ancor più breve di quanto non succeda ai precari uomini. Il 76 per cento delle atipiche si ritrova con un contratto temporaneo inferiore ai dodici mesi mentre agli uomini succede a poco meno del settanta per cento dei casi.

L’elusività del lavoro stabile

La condizione precaria sembra essere per la componente femminile uno status ancora meno passeggero di quanto non sia già per i colleghi maschi. Si direbbe piuttosto una condizione permanente che per di più interessa quasi tutte le età. A una quota molto esigua di donne viene concessa la possibilità di potere accedere, dopo esperienze di lavoro discontinuo, a un contratto a tempo indeterminato. Ci riesce solo il 14 per cento di loro, mentre riesce lo stesso a un pur sempre troppo esiguo 20 per cento degli uomini con contratti a tempo determinato o di collaborazione.

Il part-time e l’inganno della flessibilità family friendly

Le donne poi si ritrovano a dover abitare lo spazio del tempo parziale non sempre per propria scelta. Rappresentano i tre quarti degli occupati part-time (dipendenti e parasubordinati), ma solo il 36 per cento si trova in questa condizione intenzionalmente. Il tempo parziale rappresenta un vantaggio semmai per le donne in età più avanzata dove il rientro sul mercato del lavoro diventa un modo per contribuire al reddito familiare. Per la gran parte però non sembra avvalorata l'ipotesi che il part-time sia uno strumento di conciliazione da accogliere senza remore. Gli autori dell’indagine mettono in guardia e affermano che è “legittimo chiedersi se il ricorso indiscriminato a forme contrattuali atipiche non rappresenti in realtà un fattore di svantaggio per le donne”.

Mestieri troppo atipici

La flessibilità che viene offerta alla donne sembra così determinare un “progressivo deterioramento dal punto di vista occupazionale, economico e sociale” della loro condizione. Hanno titoli più elevati ma lavorano meno e guadagnano meno. Svolgono professioni tecniche, attività impiegatizie poco qualificate e a carattere esclusivo. E per quanto riguarda le laureate che si ritrovano con un contratto di collaborazione, solo il 42 per cento di loro è occupata in attività scientifiche e di elevata specializzazione mentre succede lo stesso, a parità di titolo di studio, al 52 per cento degli uomini.

Il minore guadagno

Secondo i dati Inps, rielaborati dagli autori dell’Ires, a parità di durata contrattuale le donne si ritrovano ad avere un imponibile medio inferiore a quello degli uomini. Con una differenza che diventa crescente visto che mentre quelle degli uomini continuano a crescere nel tempo, per le donne le retribuzioni dopo i 44 sembrano non aumentare più. Complessivamente il 77,3 per cento delle atipiche ha un imponibile inferiore ai diecimila euro l’anno (vedi tabella).

La conciliazione difficile

Le condizioni non possono che avere così una ricaduta diretta sulle scelte di vita. Tra le giovani collaboratrici con un'età compresa tra 25 e 34 anni, sono madri meno del 19 per cento (vedi tabella) mentre le occupate della stessa età lo sono in una percentuale molto più elevata (il 31 per cento). La maternità e la collaborazione sembrano condizioni difficilmente conciliabili. E i figli trovano spazio solo in età più avanzata quando diventa maggiore l'autonomia in termini di sede e di orario di lavoro.

TABELLA: L'imponibile per sesso

CONDIZIONE FAMILIARE:Con figli e senza

INSTABILITA’:Per genere e per età

(Repubblica.it, 20.3.08)

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18.3.08

 

Femministe in lotta a Padova


Arriva Ferrara, sono subito botte

Scontri, due cariche dei carabinieri e momenti di forte tensione domenica sera [16/3] davanti al comune di Padova, dove centinaia di femministe si erano date appuntamento per contestare l'arrivo in città di Giuliano Ferrara per presentare il programma della lista «Aborto? No Grazie». La reazione delle forze dell'ordine è scattata quando un gruppo di manifestanti, soprattutto donne ma anche militanti dei centri sociali e del movimento No Dal Molin, ha cercato di forzare il blocco al cancello principale di Palazzo Moroni. Contro i dimostranti sono partite due cariche. Ma la vera contrapposizione è stata quella fra donne e forze dell'ordine. Dopo l'arrivo di Ferrara, sotto scorta («non ho paura», ha però detto), la manifestazione è proseguita.

«Giuliano, sei inconcepibile»

Il sit in contro la lista pro-life era stato indetto dal circolo lesbico Drasticamente con altre associazioni femministe. «Autodifesa della nostra vita» e «Ferrara sei inconcepibile», diceva la loro convocazione, «Critichiamo gli ipocriti come Ferrara che si schierano veementemente contro l'aborto e l'autodeterminazione delle donne ma sono poi complici o indifferenti sulle produzioni di morte e sulle nocività che danneggiano quotidianamente le nostre vite, o che non si interessano delle migliaia di donne che muoiono nella propria casa a causa della violenza maschile».

(il manifesto, 17.3.08)
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- V. il video della manifestazione

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17.3.08

 

Aborto e rivoluzione russa


Al fine di contribuire documentalmente all’attuale dibattito sull’aborto, riportiamo il testo del Decreto sovietico del 1920, che regolamenta l’ ”aborto libero e gratuito” annunciato subito dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917.

I tratti caratteristici della legge sovietica del 1920 sono:
1) l’aborto è (un’operazione chirurgica) legale (artt.1 e 2), purchè sia effettuato da un medico;
2) esso è (entro i tre mesi) frutto di libera scelta della donna (art.6);
3) l’aborto è un problema sociale (gli aborti clandestini e la moria delle donne) che va affrontato ponendo l’incolumità e la salute della donna al primo posto (artt.3 e 4);
4) non è permesso al medico di rifiutare l’aborto, ma solo di cercare di dissuadere la donna (artt.8 e 13).

Negli anni successivi, di pari passo col sopravvento delle forze contro-rivoluzionarie, vengono approvate norme integrative, limitative.
- Nel 1924, l’art.5 impedisce l’aborto “durante la prima gravidanza” (a meno che la madre non sia in pericolo di vita).
- Nel 1928, l’art.7 impedisce l’aborto entro sei mesi dal precedente.

Con la legislazione staliniana del 1936, si ha un’inversione completa di tendenza: l’aborto viene proibito (art.1 del Decreto 28/6/1936), a meno che non vi sia un pericolo di vita della donna o grave danno alla sua salute, o di trasmissione ereditaria di “qualche grave malattia” (di cui all’Elenco annesso al Decreto).

Decreto del 18 novembre 1920 (con disposizioni integrative)

“Il Commissariato del Popolo per la salute pubblica e il Commissariato del Popolo per la giustizia, nell’intento di proteggere la salute della donna e gli interessi della razza contro ciarlatani avidi e ignoranti, considerando che il sistema di repressione fin qui adottato non ha dato alcun risultato, delibera quanto segue:

Art.1. – L’operazione per l’interruzione di gravidanza può essere praticata solo da medici diplomati.

Art.2. – Tranne che in circostanze eccezionali, l’aborto deve essere il risultato di un’operazione chirurgica e non di una somministrazione di droghe.

Art.3. – Dopo l’operazione le donne devono restare a letto in ospedale o in luogo analogo, per almeno settantadue ore.

Art.4. – Dopo ogni aborto o raschiamento, le pazienti non possono essere riassunte al lavoro prima che siano trascorse due settimane dall’operazione.

[Art.5. – L’aborto non può essere praticato durante la prima gravidanza, tranne che in caso di pericolo di vita per la madre (Decreto integrativo del 1924).]

Art.6. – L’aborto non può essere praticato se la gravidanza si è protratta per più di tre mesi.

[Art.7. – Un nuovo aborto non può essere praticato prima che siano trascorsi sei mesi dal precedente (Decreto integrativo del 1928).]

Art.8. – Eccettuati i casi previsti dagli artt. 5-6-7, il medico qualificato non ha il diritto di rifiutare l’aborto, ma conserva la libertà di dissuadere la paziente con tutti i mezzi a sua disposizione.

Art.9. – Tutti gli aborti devono essere praticati in appositi ospedali, destinati a questo scopo.

Art.10. – Alle levatrici e in genere a chiunque non sia medico è rigorosamente proibito di praticare aborti. I contravventori saranno tradotti davanti al Tribunale del Popolo.

Art.11. – I medici che praticano aborti al di fuori degli ospedali, con effetti letali per la paziente, come ogni altro individuo alle cui manovre abortive segue la morte della donna, possono essere perseguiti per omicidio. Non sono punibili le donne che si procurano l’aborto da sole.

Art.12. – Chiunque procede, anche con il consenso della madre, ad una interruzione di gravidanza senza essere a ciò autorizzato dalla legge è punito con la reclusione o con i lavori forzati fino al massimo di un anno e multa di 600 rubli. Alla stessa pena soggiace il medico che pratica l’operazione in condizioni anti-igieniche. Nel caso in cui gli atti specificati nella prima parte di questo articolo avessero il carattere di atti consuetudinari o mercenari, o avessero luogo senza il consenso della madre, o ancora provocassero la sua morte, il colpevole sarà punito con cinque anni di reclusione (art.140 cod. penale, 1922)

Art.13. – Rientra nei doveri del medico di sconsigliare l’aborto se le donne che lo richiedono hanno meno di tre figli, se hanno mezzi adeguati per allevarne un altro, se la loro salute può ben tollerare un’altra gravidanza, se le loro condizioni di vita costituiscono un buon ambiente per i bambini e finalmente se non esiste una ragione sociale, fisica od economica per giustificare l’aborto”.

(Tratto da: “Studio sulla legislazione sovietica relativa alle interruzioni di gravidanza…", di Italo Sanguineti e Fabio Morpurgo. Bologna, L.Cappelli, 1946).

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9.3.08

 

Un otto marzo di lotta a Milano


Presidio al supermercato Esselunga di viale Papiniano

Molte delle donne che hanno manifestato ieri, 8 marzo, avevano un adesivo sul petto. Un cerchio rosso di divieto con su scritto: «Io non compro all'Esselunga». Al gruppo della grande distribuzione le donne dell'8 marzo milanese contestano il mobbing ai danni di una cassiera e le portano la loro solidarietà, di genere e di classe. La lavoratrice, in attesa del cambio per andare in bagno, non ha resistito e ha fatto pipì alla cassa. Nei giorni successivi ha sporto denuncia anche per essere stata malmenata negli spogliatoi.

Proprio davanti all'Esselunga di viale Papiniano ieri pomeriggio oltre un centinaio di rappresentanti dei collettivi femministi (Mai state zitte; Le strie; Donna Proletaria) e del movimento antagonista (anarchici, giovani dei centri sociali, singoli rivoluzionari[1]) hanno inscenato una manifestazione, presidiando dall'esterno ed entrando in massa nel supermercato, gridando slogans, suonando e cantando a squarcia gola (anche l'Internazionale), semi-paralizzando di fatto l'attività del super per circa due ore.

Finalmente un vero 8 marzo di lotta!

Riproduciamo, per la sua esemplarità, il testo del volantino distribuito e affisso in zona dalle compagne di Donna Proletaria, in questa bella occasione.

<<Un 8 marzo di lotta, contro la violenza padronale e familiare, per l'Autonomia Femminile!

Salta all'occhio, dopo l'aggressione a Giovanna(1), che l'Esselunga, - come si vanta il suo patron Caprotti - è proprio una ‘famiglia' con le carte in regola, e come nelle famiglie patriarcali con le carte in regola, che puniscono le donne per motivi d'onore, anche la sua ‘famiglia aziendale' punisce le lavoratrici, per motivi d'onore e dis-affezione. Giovanna, la cassiera, ha infranto la regola di vita della famiglia-Esselunga, lavorare sempre, senza distrazioni, tantomeno andare al cesso sul lavoro, in più ha infranto anche le regole di buona creanza della famiglia, perché ha fornito non un bel faccino sorridente ai consumatori che vogliono consumare in pace, ma l'orrida visione di un malessere, di una pipì in cassa.

Ha infranto le regole, Giovanna - 15 gg di malattia per una cistite - si sa che la malattia è furto del tempo aziendale e soprattutto se ne è fregata dei ‘sentimenti' dell'azienda, che vieta la simpatia per il sindacato. Un'offesa personale per il patriarca Caprotti, che crede le lavoratrici tutte sue e pretende - come nell'harem - che abbiano relazioni solo con lui, spiritualmente sempre presente, e materialmente incarnato nei suoi scagnozzi. Ci pensano loro a far funzionare "l'harem-aziendale" premiare le ‘brave' e punire le ‘cattive'. Con la ‘tortura' delle 7 ore, la permanenza in cassa senza rotazione, il reparto ‘confino', l'angoscia dell' ‘esubero', il ricatto dei turni, dei permessi, delle ferie e del declassamento. E per chi non capisce che il patriarca è il Caprotti, oltre alle torture rituali, c'è l'aggressione maschilista vigliacca e l'inquisizione papalina, la tortura dell'acqua, la testa ficcata nel water, la vendetta del Logo per stroncare ogni resistenza delle lavoratrici attraverso l'azione paralizzante della violenza e della paura.

Come è chiaro il legame tra violenza padronale e familiare!

Caprotti orgogliosamente dichiara che la sua Esselunga è una famiglia, di cui come patron, è il patriarca. Per non perdere la mission-familiar-aziendale, il massimo di profitto, usa la più bieca violenza contro le lavoratrici per terrorizzarle, obbligarle alla passività, spogliarle della loro dignità e dei diritti sindacali conquistati con decenni di lotte, onde eliminare ogni conflittualità di classe che farebbe traballare la sua bella ‘famiglia' in cui ha potere assoluto. Che somiglianza con la mission familiare del maschio violento, usare la violenza per terrorizzare e obbligare la donna a reggere tutta quanta la famiglia, una istituzione che non ha ormai più alcuna base economica produttiva, che è solo oppressiva, soffocante, alienante per la donna, ma che assicura i privilegi del potere riservati dal patriarcato al sesso maschile.

Questo 8 marzo, segna la fine del ‘silenzio', del rito della mimosa, di tutti i comportamenti femminili passivizzanti, è un 8 marzo di lotta in tutta Italia, una sonora risposta a tutte le forze reazionarie che ci stanno attaccando sul piano dei diritti, della dignità personale e lavorativa.

Questo 8 marzo è all'insegna dell'Autonomia Femminile, PASSARE ALL'ATTACCO, AUTO-ORGANIZZARSI in Sommosse, il Movimento delle Donne che non delegano altro che a se stesse la loro vita, organizzarsi in Sommosse, il ruggito della Leonessa contro il marciume capitalista che vuole risolvere la sua crisi sistemica sulle nostre spalle!

BOICOTTARE L'ESSELUNGA E OGNI SUPERMERCATO, GRANDI MAGAZZINI O NEGOZI IN CUI VIENE CALPESTATA LA DIGNITA' DELLE LAVORATRICI!
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(1) Lo sapevo che me l'avrebbero fatta pagare. Il racconto di Giovanna (nome di fantasia). "Giovedì, alle 16.30, ero appena andata in "pausa". Sono scesa nel nostro locale spogliatoio, mi sono seduta sulla panchetta e stavo frugando nella borsa per trovare qualcosa. Ho sentito una mano che mi afferrava da dietro e mi tirava su peri capelli «Avrei voluto urlare. Ma mi è stato messo qualcosa sugli occhi e un tampone, un pezzo di stoffa in bocca. Non riuscivo più a parlare e a vedere niente. Ho solo capito che si trattata di un uomo, una persona molto forte, più alta di me, ho pensato che stava per ammazzarmi. Mi ha trascinato con la forza dentro all´antibagno, ha cominciato a picchiarmi, mi sbatteva la testa sugli armadietti con violenza. Mi ha preso a calci, a spintoni, a pugni. Mi diceva, "hai parlato troppo" e picchiava. Giù un colpo e diceva: "Questo è da parte di..". Un altro colpo e "Questo è da parte di.." Ho cercato di graffiarlo. Ho anche pensato che se mi ammazzava almeno mi sarebbero rimaste tracce del suo Dna sotto le unghie. E gli ho morso un dito, ma ho sentito che aveva guanti di plastica. Quando mi ha costretto a mettere la testa nel water ho perso conoscenza, non ricordo più nulla. Pensavo ai miei due bambini e avevo il terrore di lasciarli per sempre». Sono rimasta sul pavimento davanti al water. Una collega mi ha trovato così, svenuta. Ho aperto gli occhi e ho visto il direttore della filiale che mi carezzava(!) e mi chiedeva "Perché mi fai questo?"(!!) Contusioni, distorsioni, ecchimosi, tumefazioni, trauma cranico. Ho terrore per me e i miei figli, paura delle conseguenze sul piano lavorativo, ma senza il mio stipendio la famiglia crolla. Non cercherò un'altro lavoro, resterò al mio posto e lotterò per la verità e i miei diritti'.>>
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[1] Davanti alle casse, con cappello, sciarpa rossa e megafono, anche Oreste Scalzone, il rappresentante di Autonomia operaia ritornato in Italia nel 2007 dopo la caduta in prescrizione dei reati di associazione sovversiva e banda armata per cui era stato condannato.

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7.3.08

 

Aumentano gli infortuni (anche) tra le donne


Ogni anno 120 lavoratrici perdono la vita, in pratica una ogni tre giorni. Il fenomeno è in ascesa tra le lavoratrici, in parte perché è aumentato il tasso di occupazione femminile, ma anche per il sempre più frequente ingresso delle donne in settori lavorativi ad alto rischio di infortuni e malattie da lavoro.Per quanto riguarda il dato complessivo degli infortuni nei diversi settori, nel solo triennio 2003-2005 le donne vittime di incidenti sono state il 24,5 per cento del totale (228 mila casi su 934 mila).

Questi i dati dell'Inail, resi noti oggi dall'Inca Cgil nel corso di un convegno sull'8 marzo. Anche nel settore industriale, dove le donne rappresentano solo il 23 per cento del totale degli occupati, la quota degli incidenti è comunque significativa (10,4 per cento). Come spesso accade, i dati territoriali segnano delle differenze significative. In Italia centrale si registra la più alta percentuale degli infortuni subiti da donne (27,1 per cento). Seguono le regioni del Nord (24,5) e del Mezzogiorno (21,4 ). Riguardo all'età, gli infortuni sono frequenti soprattutto tra le lavoratrici comprese tra 26 e 49 anni. L'Inca riporta anche i dati sulle malattie professionali: ogni anno ne vengono denunciati all'Inail circa 26 mila casi e le donne, con quasi 6 mila denunce annuali, raggiungono il 21,8 per cento del totale. È il settore agricolo quello con la più alta presenza di malattie professionali al femminile: le più frequenti sono tendiniti e sindrome del tunnel carpale (per gli uomini sono invece sordità e malattie dell'apparato respiratorio). In crescita anche gli infortuni delle lavoratrici straniere, che dal 2001 al 2004 sono raddoppiati, passando da 10 mila a 20 mila.

Secondo i dati del patronato, circa il 40 per cento delle donne infortunate smette di lavorare dopo avere subito un infortunio: 'Troppo spesso le donne, pur restando al lavoro, vengono adibite a mansioni non del tutto compatibili con la menomazione subita, esposte a un lavoro faticoso non sempre eseguibile. Soltanto il 3,8 per cento delle donne disabili trovano una giusta collocazione'. Sulle donne, sottolinea il patronato, ricadono doppiamente le conseguenze di un infortunio perché 'viene gravemente compromesso l’equilibrio relazionale del nucleo familiare sia al proprio interno sia nel contesto sociale'. Afferma ancora l'Inca: “Sono significativi i dati di una recente indagine a campione condotta dall’Amnil, dalla quale emerge che una donna su cinque in media viene abbandonata del compagno dopo l'infortunio. E, nel periodo successivo, oltre 6 su 10 delle donne intervistate con una età inferiore ai 50 anni si è separata'.

Durante il convegno, l'Inca Cgil ha poi elencato alcune proposte per una migliore tutela: riconoscere il diritto anche alle coppie di fatto all’indennizzo Inail; garantire ai figli minori e studenti la stessa percentuale di rendita Inail prevista per il coniuge superstite (50 per cento); assicurare che l’indennizzo Inail non sia inferiore alla retribuzione del lavoratore o della lavoratrice deceduto per un incidente sul lavoro; aumentare il fondo nazionale per le vittime nei luoghi di lavoro che attualmente ha una dotazione finanziaria di 2,5 milioni di euro. “Una cifra – afferma il patronato - che basta a malapena ad assicurare a ciascuna vittima sul lavoro una 'una tantum' che va da 1.500 a un massimo di 2500 euro in base alla composizione del nucleo familiare”. Ultima proposta: in caso di gravi incidenti domestici, assicurare alla lavoratrice che il periodo di malattia non incida ai fini della conservazione del posto di lavoro.

(Rassegna.it, 07/03/2008)

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Oltre un miliardo di donne al lavoro, ma i diritti sono ancora un miraggio


Molte confinate in settori con bassa produttività, paga ai minimi e prive dei diritti elementari. Nei paesi meno sviluppati una quota elevata costretta a rimanere fuori dal mercato. Cresce il livello di istruzione. L’allarme lanciato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. (Federico Pace)

Sono un miliardo e duecento milioni le donne che lavorano nel mondo. Un numero che negli ultimi dieci anni è cresciuto quasi del venti per cento. Ma per lo più sono confinate nei settori meno produttivi, sopportano i maggiori rischi economici e sono ancora molto lontane da un lavoro decente. Private dell’accesso alla protezione sociale e ai diritti fondamentali. E, anche se cresce il livello di istruzione e si riduce il gap in alcuni indicatori, rimane immutata la proporzione delle donne occupate (quaranta per cento del totale della forza lavoro). Sono questi i principali risultati del rapporto “Le Tendenze Globali dell'Occupazione Femminile” presentato oggi dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Dal 1997 a oggi il numero delle donne al lavoro è cresciuto di 200 milioni di unità. Nello stesso periodo è aumentato, in minore misura, anche il numero delle disoccupate: oggi sono 81,6 milioni. Il tasso di disoccupazione femminile è sceso al 6,4 per cento mentre quello della componente maschile è ancora inferiore e pari al 5,7 per cento (vedi tabella).

Gli impieghi vulnerabili

Più donne al lavoro quindi, ma per la gran parte di loro i problemi restano. Soprattutto se si guarda ai settori in cui sono attive e ai diritti di cui godono. "Le donne continuano ad entrare nella forza lavoro in gran numero. Questo progresso non deve tuttavia far passare inosservate le grandi ingiustizie che continuano ad esistere nei posti di lavoro di tutto il mondo" ha detto il direttore generale dell’ILO Juan Somavia. Nell'ultimo decennio è scesa, dal 56,1 per cento al 51,7 per cento, la quota di donne impiegate in posizioni vulnerabili (vedi tabella), dove lavorano per qualche familiare o in proprio, non sono stipendiate e molto probabilmente non sono indipendenti economicamente. Un fenomeno che rimane diffuso soprattutto nelle regioni più povere del mondo.

Il miglioramento di questi ultimi anni ha lasciato una quota ancora troppo elevata in posizioni di disagio e incertezza. Con percentuali che superano l'ottanta per cento in aree come l'Africa Sub -Sahariana e l'Asia del Sud. "Il posto di lavoro ed il mondo del lavoro – ha detto Somavia - sono fondamentali per il raggiungimento delle pari opportunità e per l'avanzamento delle donne nella società. Promuovendo il lavoro dignitoso per le donne, le società si rafforzano e si sostiene il progresso economico e sociale".

Lavoro decente precondizione sviluppo economico

L’obiettivo, per gli autori del rapporto, deve essere quello di dare a tutte le donne un impiego decente. Questo obiettivo va considerato anche come la precondizione per lo sviluppo economico. Le aree dove si è registrata una significativa crescita economica sono quelle con la più elevata partecipazione femminile al lavoro, i più bassi tassi di disoccupazione e i minori gap in termini di distribuzione nei settore di impiego. Il coinvolgimento delle donne all’interno dell’occupazione può dare quindi il giusto impulso allo sviluppo economico, solo se esse non rimangono confinate in lavori poco remunerati e con una bassa produttività.

"L'accesso ai mercati del lavoro e ad un’occupazione dignitosa è cruciale per realizzare pari opportunità," ha spiegato Evy Messell, direttrice dell'Ufficio dell'ILO per le pari opportunità, "tuttavia le donne devono superare ancora molti ostacoli discriminatori quando cercano un lavoro. Le società non possono permettersi di ignorare il potenziale del lavoro femminile per la riduzione della povertà e devono cercare metodi innovativi per abbattere le barriere economiche, sociali e politiche. Fornire alle donne una base di uguaglianza nel mondo del lavoro non solo è eticamente giusto, è anche un investimento intelligente nel lungo termine".

La libertà di scelta

Ad oggi, per ogni dieci uomini occupati, ci sono sette donne che lavorano e il rapporto fra occupazione femminile e popolazione, il valore che svela in che misura le economie sono in grado di trarre beneficio dal potenziale produttivo della popolazione in età lavorativa, è del 49,1 per cento (mentre per gli uomini è del 74,3 per cento). Se è vero, sottolineano gli autori del rapporto, che non tutte le donne vogliono lavorare, è certo che a tutte deve essere data l’opportunità di scegliere se lavorare o meno. E se esse scelgono di lavorare, deve essere data loro l’opportunità di scegliere lavori che remunerano e con gli stessi diritti dei loro colleghi uomini.

TABELLA: Dal 1997 a oggi

TIPO DI IMPIEGO: Salariate e vulnerabili

(Repubblica.it, 7.3.08)

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3.3.08

 

Solidarietà alle compagne di Bologna!


Alle ore 17 del 1 marzo ’08, in via delle Belle Arti tre compagne del coordinamento Quelle che non ci stanno, che denuncia da anni la violenza maschile sulle donne, promuovevano un presidio per il 4 marzo, sotto il tribunale, in solidarietà ad una donna che denunciò nel settembre del 2006 colui che aveva cercato di stuprarla, tre uomini in borghese senza qualificarsi come forze dell’ordine le avvicinavano chiedendo loro di mostrare i documenti d’identità. (Comunicato)

La digos solo in un secondo momento si qualificava, a seguito di molteplici richieste delle compagne che nel frattempo stavano cercando di contattare un’avvocata . L’avvocata contattata consigliava loro di dare le generalità, ma la comunicazione veniva interrotta bruscamente dal sequestro del telefono cellulare da parte di un poliziotto.

Nel frattempo erano già arrivate sul posto 4 volanti della polizia. Alle compagne, circondate dalla polizia, veniva impedito di dare le generalità e intimato con violenza e prepotenza di salire in macchina . Circondate da più di 15 poliziotti e digossini venivano quindi introdotte forzatamente sulla volante della polizia e condotte in questura con sirene spiegate.

Giunte in questura venivano tutte e tre identificate con foto segnaletiche e impronte digitali di entrambe le mani e dei palmi, quindi intimidite e minacciate in svariati modi, trattenute per tre ore, alla fine delle quali, denunciate per rifiuto di dare le generalità e resistenza a pubblico ufficiale. Durante questo fermo è stato loro impedito di comunicare all’esterno quanto stava accadendo, lasciandole in uno stato di totale isolamento. Nel frattempo donne e lesbiche del coordinamento giungevano in solidarietà alle compagne in questura.

Denunciamo la violenza verbale tenuta da subito, le minacce continue, la volontà di impedire di comunicare sia all’esterno che tra loro, la violenza attuata con la presenza di più di quindici poliziotti che le accerchiava e le spingeva di forza in macchina, la scelta di un luogo isolato per effettuare il fermo che ancor di più impediva la visibilità di quanto stava avvenendo.

Denunciamo le minacce di perquisizione personale in questura, le modalità di identificazione avvenute attraverso foto segnaletiche e impronte digitali, l’arroganza, prepotenza, derisione tenuta. Denunciamo la repressione che colpisce 3 compagne del nostro coordinamento contro la violenza maschile .Tutto questo per noi non è solo abuso di potere, ma intimidazione mirata all’attività politica delle donne e lesbiche.

Ricordiamo che questa repressione non ci è nuova : a novembre 2006 a Crevalcore, durante una manifestazione di denuncia di uno stupratore , la polizia teneva un comportamento fortemente intimidatorio e minaccioso nei confronti delle manifestanti, identificandole e cercando di impedire lo svolgimento stesso della manifestazione.

IL 20 aprile 2007, durante una manifestazione in Cirenaica , in solidarietà ad una donna che aveva denunciato i suoi due stupratori, ancora una volta la digos minacciava Quelle che non ci stanno.

In questo caso unico neo della nostra presenza pubblica che ci teniamo a comunicare è stato l’ostruzionismo delle forze dell’ordine, 4 uomini in borghese, che non si sono mai identificati come tali ed una donna che da un certo punto in avanti ha filmato e ripreso ogni nostro movimento. In fase di conclusione della manifestazione mentre le donne che avevano partecipato scioglievano il corteo, per prendere ognuna la propria direzione, in forma subdola e senza che sussistesse nessun motivo specifico, la polizia provava a fermare ed identificare singole donne.

...Allora noi ci chiediamo se il compito di questi operatori delle forze dell’ordine retribuiti anche da noi sia quello di impiegare numerose ore del proprio lavoro a controllare, identificare, provocare e magari denunciare le donne che provano a porre fine e a arginare le atrocità che nei loro confronti vengono agite. Coloro che hanno come dovere la sicurezza[1] non solo non ce la danno, non riuscendo ad impedire che avvengano gli stupri nè a perseguirne i colpevoli, ma aprono spazi ad atteggiamenti sessisti ostacolando e perseguendo noi. Il paradosso è evidente e vogliamo che tutte ne siano al corrente.

Bologna, 2 marzo 2008

Quelle che non ci stanno

maragridaforte@inventati.org
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[1] Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza sono il braccio armato del patriarcato e dello Stato borghese. Nessuna illusione, quindi, sui loro compiti istituzionali (che non concernono la "sicurezza" dei cittadini in genere, bensì del patrimonio e dei proprietari). N.d.R.

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2.3.08

 

Donne sotto il velo, il sipario strappato


Chador, burqa, niqab... tanti modi per dire la segregazione femminile. Il libro di Giuliana Sgrena «Il prezzo del velo» racconta i crimini silenziosi della «guerra dell'islam contro le donne». La lotta e la resistenza (Mariuccia Ciotta)

«Mi ricordo il pallore dei visi delle donne afghane quando hanno manifestato per la prima volta contro il burqa dopo la partenza dei taleban. La pelle che per anni non aveva goduto del beneficio dei raggi sole si squamava». È un'immagine folgorante, la scena clou di un film dell'orrore, dove più del sangue conta il piccolo dettaglio, l'incrinatura ai margini... «la pelle si squamava».

Il libro di Giuliana Sgrena Il prezzo del velo (Feltrinelli, pp. 156, euro 13) è una polifonia di crimini e di resistenza, il racconto in crescendo della «Guerra dell'islam contro le donne», sottotitolo di un noir dove il maschile è definito dall'annientamento del femminile. E dove al tempo stesso, nel suo delirio di controllo della donna, l'uomo integralista nazionalista devoto ne esce subumano. Il furore machista e identitario contro modernità e occidente si spegne nel suicidio della sua stessa cultura, la donna oscurata è una parte di sé che muore. La rivoluzione, che interiorizza la schiavitù e lacera il proprio corpo, non avrà luogo.

Giuliana strappa il velo, declinato in tutte le sue forme, chador (iraniano), burqa (afghano), niqab (saudita) e ci mostra cosa c'è oltre lo schermo. Dietro l' abaya nera, ispiratrice della maschera di Guerre stellari, si apre un abisso, molto lontano dalle riflessioni europee sull'uso del velo da concedere o meno alle immigrate. Quel pezzo di stoffa è solo il segnale visibile di un feroce abuso, un sipario che può apparirci voluttuoso, quasi un monile sensuale posto a barriera dello sguardo e che nasconde invece il più grande crimine contro l'umanità. La mappa di Giuliana disegna l'esproprio della libertà delle donne in una vasta area del mondo, dove non c'è scelta possibile. Chi dichiara di indossare il vero liberamente sa che non è dato vivere Con il vento nei capelli (titolo del libro della scrittrice palestinese Salwa Salem) per milioni di sorelle che combattono perché un giorno il foulard non significhi altro che moda (le passerelle di Parigi in questi giorni mostrano ragazze con un fazzoletto sulla testa, vintage degli anni Sessanta). Ma ora il percorso del Prezzo del velo ci porta nei gironi infernali di paesi amici e nemici dell'occidente, che fingono di ignorare le lotte estreme delle donne e dei giovani contro una politica di segregazione. «L'obiettivo di questo libro - scrive l'autrice - non è tanto la denuncia delle violazioni dei diritti delle donne nel mondo islamico (...) bensì far luce su una realtà poco nota e poco raccontata: la presenza nei paesi musulmani di donne (ma anche di uomini) che si battono per i loro diritti...».

Un viaggo che parte da Sarajevo, diventata terra di conquista dei mujahidin, i combattenti di credo wahabita, impegnati a reislamizzare la Bosnia. Scopriamo che qui le donne «convertite» ottengono 400 marchi bosniaci (200 euro) al mese se indossano l'hijab, soldi provenienti in gran parte dall'Arabia saudita. Un ritorno al passato, stigmatizzato dalla sociologa femminista Nada Ler Sofronic, che lamenta la sottovalutazione del fenomeno: «che non è religioso: la fede viene usata come strumento da un movimento neoconservatore e nazionalista, è la destra politica». Il libro passa quindi alle «malvelate» dell'Iran, dove non si «può pregare con lo smalto» e che evoca un bellissimo cartoon uscito in questi giorni, Persepolis di Marjanne Satrapi, giovane scrittrice e disegnatrice iraniana. Un arabesque di carboncino che graffia lo schermo con i suoi «barbuti» e inquadra se stessa bambina in fuga, perseguitata per il suo modo «sportivo» di portare il velo, le scarpe da ginnastica e l'ironia.

Per tutte vale il «modello saudita» che detta il suo mostruoso decalogo «rosa»: vietato guidare, viaggiare, star sole in albergo, dare il nome ai figli, ottenere il passaporto, lasciare la casa, avere un lavoro, andare a scuola, aprire un conto in banca, sposarsi... vietato, a meno che il marito o il padre non diano il permesso. Uomini, costretti a far da cane da guardia alle loro donne per sentirsi vivi, e che della vita dispongono, come nel caso del gruppo fondamentalista palestinese Righteous swords of Islam, vicino ad al Qaeda, che ha minacciato le giornaliste senza velo in tv di distruggere le loro case, far saltare per aria il posto di lavoro, e, se necessario, decapitarle e/o sgozzarle «per salvare lo spirito e la morale del nostro paese».

E via con una serie di incontri e di esperienze dirette con militanti, intellettuali, artiste, tutte sotto il fuoco del fanatismo, intrappolate nella Umma, la comunità islamica, che veglia sulla fedeltà a presunti principi religiosi. Giuliana, che martedì 4 marzo ricorderà con noi la sua liberazione dal sequestro funestato dalla morte di Nicola Calipari, non ci dà tregua nel suo racconto avvincente che ci conduce dalle «spose bambine» ai «suicidi d'onore», alle lapidazioni, alla poligamia, alle ragazze-kamikaze ma anche alle case-rifugio, la rete di protezione per le perseguitate e agli «istituti di bellezza», gli hammam (bagni turchi), oasi misteriose e spesso proibite, dove sogni e parole si confondono con i vapori profumati.

Un mondo a parte che si dispiega nelle pagine del libro, guida alla conoscenza di qualcosa di travolgente, dove la violenza ma anche la tecnica persuasiva del telepredicatori islamici viola ogni giorno non l'«altra», ma ognuno di noi. E che dall'integralismo islamico si propaga a ogni integralismo, a ogni forma di machismo, presente ovunque. Di sharia ce ne sono tante e le parole del Prezzo del velo toccano anche chi crede di essere immune dalla narrazione di una infelicità impensabile.

La Convenzione delle Nazioni unite, conclude il libro, è stata ratificata dalla maggior parte dei paesi musulmani, ma con «riserva», vale a dire che il principio di uguaglianza tra i sessi è sottoposta alla legislazione nazionale che, paradossalmente, fa appello alla «differenza di genere» per violare i trattati internazionali. Ma quei «visi pallidi» prima o poi prenderanno il sole e il sipario che nega l'esistenza delle donne sarà strappato.

(il manifesto, 1.3.08)

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Giugliano, si dà fuoco contro la discarica


La donna si è cosparsa di benzina. Non è in gravi condizioni

Napoli. Dopo quei lunghi 67 giorni di presidio che scongiurarono l'ipotesi della riapertura della discarica di Taverna del Re a Giugliano, in provincia di Napoli, Lucia ieri non ce l'ha fatta a sopportare il valzer degli iter burocratici istituzionali. (Ilaria Urbani)

La donna, 46 anni, sempre in prima fila durante le proteste cittadine non ha retto e si è cosparsa di benzina, dandosi fuoco davanti ai cancelli della discarica riaperta mercoledì dal commissario per l'emergenza rifiuti Gianni De Gennaro. Poteva andare molto peggio, mentre invece Lucia De Cicco, che dalla nascita soffre di un handicap alle gambe, ha riportato solo alcune ustioni al viso per le quali i medici del Centro grandi ustionati dell'ospedale Cardarelli le hanno prescritto una prognosi di 20 giorni. La donna non ha voluto sentire ragioni e ieri mattina si è incatenata ai cancelli della discarica insieme a Carlo Ruggiero, portavoce dell'associazione «Napoli vive io la difendo» e ha minacciato di darsi alle fiamme. Poco dopo Lucia è passata ai fatti, gettandosi benzina sul corpo. «Mi sono sentita derisa e imbrogliata dallo Stato - ha detto Lucia dall'ospedale - un funzionario di polizia mi ripeteva in continuazione: "potete stare qui anche dieci giorni, ma le cose non cambieranno". Le proteste pacifiche non fanno notizia. Alla fine è sempre la violenza che vince».

Lucia ha voluto difendere con i denti quel territorio dove vive da 16 anni con i suoi due figli, non ha voluto arrendersi a quella puzza irrespirabile che dall'estate scorsa attraversa le zone di Villaricca, Lago Patria, Giugliano, Marano, Quarto e Pozzuoli. La stessa della zona orientale di Napoli. Il piano De Gennaro infatti continua a fare acqua da tutte le parti. Solo l'intervento tempestivo delle forze dell'ordine ha salvato ieri la donna dal peggio. Un folto cordone di polizia infatti presidiava la zona per difendere la decisione contenuta nell'ordinanza 98 con la quale il commissario di governo ha stabilito la riapertura per altri 5 giorni della discarica per lo stoccaggio delle balle di rifiuti in uscita dagli impianti ex Cdr. «Questa decisione è una sconfitta per lo Stato - ha commentato Carla Ruggiero - lo Stato smentisce se stesso, ancora una volta». Lucia si è sentita tradita ancora una volta dalle istituzioni, dicono i cittadini che come lei stanno protestando da ieri davanti al sito di Taverna del Re. «Non credevo arrivasse a questo però - spiega Pina Elmo, altra pasionaria del comitato - è stato un incubo stavo cercando di oltrepassare il cordone della polizia per raggiungere lei e Carla e convincere entrambe a desistere, ma ad un certo punto Lucia si è arrabbiata».

I residenti insieme ai comitati cittadini «Napoli vive, io la difendo» e «Giugliano Fronte popolare Attac» erano andati via il 31 dicembre dal sito con una vittoria in tasca, dopo un presidio durato oltre due mesi. La zona infatti era stata posta sotto sequestro dalla procura di Napoli per 24 ore ad aprile poi riaperta, per poi essere richiusa e riutilizzata ad ottobre. Un tira e molla che ha portato la disperazione dei cittadini alle stelle perché il deposito ospita già oltre 5 milioni di ecoballe non a norma. Una sentenza dell'8a sezione del Tribunale civile il 29 novembre stabiliva che fino a quando la società Fibe non avesse provveduto all'imballaggio con teli idonei, Taverna del Re doveva chiudere i battenti. Ma, come se nulla fosse, il sito invece è stato riaperto il 21 dicembre scorso per essere chiuso e nuovamente riaperto il 26 dicembre. Il giorno seguente la polizia ha caricato la folla, forzando i blocchi, e permettendo l'ingresso all'interno di 50 camion pieni zeppi di spazzatura. Erano i giorni precedenti alla rivolta di Pianura, la tensione era nell'aria, e i cittadini di Giugliano non hanno mollato. Non hanno lasciato passare neanche più un camion che trasportava immondizia. A poche ore dal nuovo anno Taverna del Re dunque è stata chiusa. E a dopo meno di due mesi è ancora lì pronta a ricevere altra spazzatura.

(il manifesto, 1.3.08)

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1.3.08

 

Mobbing a Milano: cassiera vessata e aggredita


Milano, una peruviana di 44 anni, due figli, denuncia un'aggressione nello spogliatoio. Sciopero e presidio con la partecipazione dei clienti del supermercato.

Maltrattata e umiliata. Ma ha resistito anche se malata. Poi, quando è stata aggredita fisicamente, ha deciso di reagire e ha denunciato la violenza alla polizia. Protagonista di questa storia una cassiera peruviana del supermercato Esselunga che tra le lacrime ha raccontato l'aggressione di cui è stata vittima nel locale spogliatoio del negozio di viale Papiniano, a Milano, da parte di una persona non ancora identificata. "Quando mi ha messo la testa nel water", ha detto, "ho visto i miei figli che mi salutavano per l'ultima volta e mi sono raccomandata a Dio".

Oggi i sindacati confederali di categoria hanno proclamato lo sciopero per tutta la giornata e hanno attuato un presidio di solidarietà che ha visto la partecipazione oltre che dei lavoratori anche di clienti (400 persone, secondo gli organizzatori). Ma il motivo della protesta ha origine anche nel fatto che si tratta della stessa dipendente che aveva denunciato di essersi urinata addosso perché non le era stato data la possibilità di andare in bagno e nemmeno di potersi cambiare fino alla fine del turno.

E' il 2 febbraio: la donna, 44 anni, due figli di cui uno piccolo, un contratto part-time di 30 ore settimanali per poco più di 1000 euro netti al mese, soffre di problemi renali. Le capita di stare male, ma non le è consentito di andare alla toilette. Finito il lavoro "umiliata e piangente" va in ospedale dove, dice, le viene diagnosticata una cistite emorragica: 15 giorni di malattia la prognosi. Non era iscritta al sindacato ma decide di farlo con la Uiltucs-Uil: "Le colleghe che hanno aderito all'organizzazione sono le uniche che hanno il coraggio di raccontare come mi hanno fatto fare pipì addosso".

Giovedì scorso il fatto più grave: dopo le 16.30 la cassiera scende le scale per cambiarsi e uno sconosciuto le copre gli occhi con una banda, le blocca le mani, le infila in bocca un panno e le sbatte la testa contro i muri del bagno. Poi urlandole "piscia" e altre minacce preme il tasto dello sciacquone. Lei sviene e viene aiutata dal direttore ("all'inizio ho avuto la sensazione che credesse mi fossi fatta male da sola") che la accompagna in ospedale: per ora le sono stati dati 10 giorni (tecnicamente per infortunio visto che l'episodio si è verificato sul lavoro). La lavoratrice ha sporto denuncia alla polizia: "Voglio sapere chi è stato a picchiarmi e perché". E soprattutto riferendosi alla sua denuncia di mobbing dice "di voler lottare ora perché nessuno sia sottoposto alle stesse umiliazioni che ho subito io".

Graziella Carneri della Filcams-Cgil sottolinea che "ovviamente non si pensa che l'aggressione sia stata commissionata dall'azienda [?!] ma che c'è una forte responsabilità per il clima intimidatorio: molti dipendenti hanno paura di prendere parte all'attività sindacale". Tesi sostenuta anche da alcuni lavoratori. Il segretario della Camera del Lavoro, Onorio Rosati, sottolinea che "nel gruppo registriamo una violazione di alcuni diritti, e la situazione in Esselunga è paradigmatica del fatto che i diritti non sono acquisiti per sempre ma vanno rivendicati e presidiati". Cgil, Cisl e Uil daranno assistenza legale alla lavoratrice. L'azienda ha replicato, in una nota: "Sono attualmente in corso delle indagini da parte delle forze dell'ordine di cui subito abbiamo richiesto l'intervento e alle quali stiamo fornendo la massima collaborazione. Auspichiamo che venga fatta luce sulla vicenda nel più breve tempo possibile. Al momento riteniamo prematuro rilasciare altre dichiarazioni". Ma la vicenda non si chiude qui: martedì è previsto un nuovo presidio e alcuni sindacalisti chiedono ai clienti e ai milanesi di "inondare la direzione di proteste e richieste di informazione via e-mail".

(Repubblica.it, 1 marzo 2008)

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Lombardia: «Tuteliamo la vita fin dal concepimento»


La Lombardia vota una norma contro la 194 nascondendola in una legge per i servizi sociali. «Tuteliamo la vita fin dal concepimento» (Giorgio Salvetti)

Milano. Per Formigoni e i suoi fedeli ogni mezzuccio è buono per continuare la campagna di delegittimazione della legge 194. Ieri, a scrutinio segreto, il Pirellone ha approvato un emendamento del consigliere Alessandro Cé che affida ai servizi sociali il compito di tutelare la vita «fin dal suo concepimento». Se fosse seguito alla lettera significherebbe la fine in Lombardia della legge sull'aborto. Di fatto si tratta dell'ennesima mossa propagandistica con qualche preoccupante conseguenza reale. Il provvedimento, infatti, fa parte del progetto di legge regionale sui servizi sociali e socio-sanitari. In questo contesto c'entra come i cavoli a merenda. Gli ospedali e il servizio sanitario sono un'altra cosa e ovviamente per i medici la 194 rimane una legge dello stato che non può essere ostacolata. Ma l'agguato è riuscito.Dopo la possibilità di seppellimento dei feti, la soglia per l'aborto terapeutico a 22 settimane e tre giorni - che recepisce nelle linee guida della Regione la pratica già seguita alla clinica Mangiagalli - la settimana scorsa in Regione si è costituito il Comitato per la moratoria dell'aborto. Giuliano Ferrara in Lombardia neppure deve fare la fatica di presentarsi, perché tanto la sua battaglia anti-abortista ha già un campione che vuole sempre essere all'avanguardia: Roberto Formigoni. E il voto di ieri è solo un'altra trovata del governatore.

«E' una forzatura - ha commentato Mario Agostinelli, capogruppo del Prc al Pirellone - un ulteriore attacco all'autodeterminazione della donna». Per Arturo Squassina (Sd) si tratta di una «barriera ideologica». Per il consigliere del Prc Luciano Muhlbauer «è l'ennesima porcata». Il Prc ha fatto ostruzionismo contro il progetto di legge, ha presentato circa 1.300 emendamenti e 150 ordini del giorno. Su altri punti del progetto di legge la maggioranza ha rinunciato o è scesa a compromessi. Sulla «tutela della vita fin dal concepimento» non ha voluto sentire ragioni. A quel punto la Sinistra Arcobaleno ha potuto solo chiedere che la votazione fosse segreta, e solo così, a conti fatti, ha incassato l'astensione di 4 o 5 consiglieri di maggioranza. L'articolo però è passato.

Più morbida l'opposizione del Pd. Maria Grazia Fabrizio, in quota Margherita, si è limitata a far notare che l'emendamento «non c'entrava con la legge in oggetto». Il suo nuovo partito ha votato contro - un fatto insolito visto che da tempo al Pirellone si limita ad astenersi - ma non ha voluto partecipare all'ostruzionismo. La destra ribalta la frittata: il fatto che l'articolo in oggetto riguardi i servizi sociali e non sanitari diventa una scusa per affermare che «si tratta solo di un modo per rimuovere le cause che possono forzare la scelta dell'interruzione di gravidanza, non c'è contrarietà alla 194».Nella pratica, il voto di ieri non comporta grandi cambiamenti. Si tratta più che altro di una petizione di principio, di una battaglia ideologica nefasta e subdola che mira al boicottaggio con tutti i mezzi della 194. Anche se qualche pessima conseguenza pratica ci sarà. «Si apre ancora più la strada alla legittimazione di quei soggetti - spiega Luciano Muhlbauer - che operano nel sociale, soprattutto privati che usufruiscono di finanziamenti pubblici, i quali fanno pressione psicologica sulle donne e ostacolano il loro diritto alla libertà di scelta. La Regione Lombardia, ancora una volta, si è trasformata da assemblea legislativa a una sorta di tribunale dell'inquisizione».

(il manifesto, 29.2.08)

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"La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale"

(Camilla Ravera - L’Ordine Nuovo, 1921)

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Sciopero generale, subito!

Stop agli omicidi del profitto! Blocchiamo per un giorno ogni attività. Fermiamo la mano assassina del capitale. Organizziamoci nei posti di lavoro in comitati autonomi operai con funzioni ispettive. Vogliamo uscire di casa... e tornarci!

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