12.2.07

 

Istat: aumentano le coppie di fatto e i figli nati fuori dal matrimonio

Una cerimonia su tre è celebrata davanti al sindaco. Al Nord la percentuale sale al 43%. Al Nord e al Centro 12 nozze su 100 sono miste, tra italiani e stranieri.

In Italia le coppie di fatto sono in continuo aumento, un fenomeno al quale corrisponde una diminuzione dei matrimoni. Non solo: sono sempre di più le coppie di fatto che scelgono di avere dei figli. L'incidenza dei bambini nati al di fuori del matrimonio, attesta l'Istat nell'indagine 'Il matrimonio in Italia: un'istituzione in mutamento', è attualmente intorno al 15 per cento, cioè quasi 80.000 nati all'anno, quasi il doppio rispetto a 10 anni fa, quando questo valore era pari all'8 per cento. Crescono inoltre le unioni civili e i matrimoni nei quali almeno uno dei due sposi è straniero: nel 2005 sono diventate il 12,5 per cento del totale, una percentuale di tutto rispetto rispetto al modesto 4,8 per cento del '95. 500.000 le coppie di fatto. "Questo fenomeno - spiega l'Istat - va interpretato nel quadro più generale delle trasformazioni dei comportamenti familiari. Sono infatti sempre più numerose le coppie, ormai oltre 500.000, che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio".

Celebrati 'solo' 250.000 matrimoni

Nel 2005 sono stati celebrati poco più di 250.000 matrimoni. Rapportato al '72 il numero presenta un vistosissimo calo: infatti in quell'anno ne vennero celebrati 419.000. Si alza l'età delle nozze. Oltre alla tendenza a vivere la vita di coppia senza contrarre matrimonio, si è rafforzata nel 2005 (anno di riferimento dell'indagine) la tendenza a posticipare l'età delle nozze per chi invece continua a fare questa scelta: attualmente infatti gli sposi alle prime nozze hanno un'età media che è intorno ai 32 anni e le spose quasi 30, quattro anni in più dell'età che avevano in media i genitori al primo matrimonio.

Più matrimoni in Campania

I dati poi si diversificano a seconda delle aree nel Paese. Ci si sposa più al Sud e nelle isole (rispettivamente 4,9 e 4,6 matrimoni per 1000 abitanti) che al Nord (3,8 per mille abitanti). Il numero più alto di matrimoni si registra in Campania (5,3 per 1000 abitanti), il più basso in Emilia Romagna (3,5). In Campania si registra anche un'età più bassa degli sposi (per le donne l'età media è 27,9 anni), mentre in molte regioni del Nord l'età media delle spose supera i 30 anni.

In aumento i matrimoni civili

Il matrimonio civile è scelto nel 32,4 per cento dei casi: solo 10 anni l'incidenza non arrivava al 20 per cento. La percentuale sale però al 43 per cento al Nord, al 35 al Centro e scende al 18 al Sud. Tra le città, le percentuali più alte di matrimoni civili si registrano a Bolzano, Siena e Firenze.

Più divorzi e seconde nozze

Il numero medio di divorzi in Italia è arrivato a 15 su 100, in decisa crescita così come i secondi matrimoni, che arrivano a quasi il 10 per cento del totale. Anche in questo caso, sono il Nord e il Centro a registrare la maggiore diffusione rispetto al Sud.
Più matrimoni misti al Nord e al Centro
L'8,8 per cento dei matrimoni celebrati in Italia nel 2004 erano misti, cioè uno degli sposi era straniero. Al Nord e al Centro nello stesso anno si sono rilevati 12 matrimoni misti ogni 100 celebrazioni. Al Sud l'incidenza è del 4,5 per cento. E' molto più frequente il caso in cui lo sposo è italiano e la sposa straniera, nel 49 per cento dell'Europa centro-orientale. Il 60 per cento dei partner stranieri ha lo stesso livello di istruzione di quelli italiani, e le differenze di età sono contenute in genere nell'ordine dei 3/4 anni.

Preferita la separazione dei beni

Nel 56 per cento dei casi gli sposi nel 2005 gli sposi hanno scelto la separazione dei beni. Solo al Sud prevale, anche se di poco, il regime della comunione.

(Repubblica.it, 12.2.07, Rosaria Amato)

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7.2.07

 

Le ragazze della rivolta


(Parigi) Le Blanc Mesnilin, fine novembre 2005, ore 16. Improvvisamente da una curva non particolarmente agevole sbuca a tutta velocità una Bmw ultimo modello grigio metallizzato. (Emilio Quadrelli)

La curva è impegnativa e la velocità sostenuta non aiuta, l’autista sembra perderne il controllo. La parte posteriore dell’auto comincia a girarsi per dare vita al più classico dei testa-coda. L’incidente appare inevitabile.

Con non poca bravura e freddezza il conducente, con un colpo di controsterzo opportuno e dato al momento giusto, riprende il controllo dell’auto e la conduce in una stradina secondaria. Mentre il rumore della frenata è ancora nell’aria, il passeggero seduto al suo fianco salta velocemente fuori dall’abitacolo e, impugnando a due mani una pistola di grosso calibro, dall’aspetto una Browing bifilare calibro 9 parabellum, prende di mira la strada. Subito dopo l’autista scende e i due si dileguano per una delle strade adiacenti.

Dopo pochi secondi sopraggiungono tre auto della polizia che, alla vista della Bmw ferma, iniziano a far stridere i freni. I più rapidi, mentre le auto sono ancora in corsa, saltano giù e armi alla mano la circondano. Ma tutto risulta inutile, nell’auto non c’è più nessuno. Imprecando si lanciano nelle vie circostanti in cerca dei fuggiaschi.

Ben presto recedono, la caccia non ha avuto buon esito.

Tutto questo potrebbe sembrare poco interessante, una normale «storia sbagliata» come avrebbe detto De André, se i fuggitivi, con non poca sorpresa, in realtà non fossero due donne e per di più velate. Due ragazze dall’aspetto molto giovane, vestite con anfibi militari, jeans, felpe e giubbotto ma con il velo.

Nello stesso periodo, mentre gran parte dei «quartieri popolari» francesi andavano in fiamme, parti non secondarie della cosiddetta società civile «scoprivano» improvvisamente la deprecabile condizione in cui le donne, a causa del machismo dilagante in banlieue, erano costrette a vivere.

Donne sottoposte ad ogni forma di brutalità e vessazioni da parte dei maschi banlieuesards i quali, in preda a perenni eccessi testosteronici, usavano nei loro confronti gli stessi riguardi riservati alle automobili. Ciò che continuamente emergeva era un ruolo totalmente subordinato delle donne di banlieues.

Una retorica che sembra avere convinto i più, ritenendo persino inutile tentare un qualche approccio empirico alla questione. È parso pertanto il caso di scendere in strada per vedere se le sentenze emesse dagli abitanti della «piccola Parigi» avessero un qualche riscontro tra gli abitanti delle periferie e, pur con i limiti che un piccolo e modesto reportage inevitabilmente comporta, a uscirne è stato un quadro decisamente diverso.

Nelle vicende dell’autunno francese, in realtà, le donne un qualche ruolo e non sempre secondario lo hanno avuto. Del resto, chiunque conosca minimamente come si svolge la vita economica e sociale in banlieue sa che il peso delle donne nella gestione concreta della vita quotidiana è addirittura strategico. Certo, è un ruolo che poco o nulla ha a che vedere con i dibattiti che appassionano la società legittima o gli ambiti degli woman’s studies. «Quote rosa» e «pari opportunità » alle donne di banlieues non dicono molto così come le loro «affinità elettive» hanno ben poco a che spartire con le riflessioni teoriche di Judith Revel ma, piuttosto, sembrano avere non poche cose in comune con le pratiche di Assata Shakur ma proprio per questo una ricerca on the road al suo interno è risultata tutt’altro che priva di interesse.

Il viaggio ha inizio con l’incontro di M. B. e il suo nutrito e agguerrito gruppo di donne black. Lei, in particolare, è politicamente attiva, e non da ieri, nei «quartieri popolari» e nel corso della rivolta ha svolto un ruolo di «direzione» non proprio secondario.

Significativamente, ottenendo l’approvazione di tutto il gruppo, non accetta un’intervista incentrata sulla «questione femminile»magioca questa, pur riconoscendone una certa «particolarità», nell’insieme della «questione banlieue». Secondo le opinioni maggiormente diffuse, le donne in banlieue vivono una condizione priva di qualunque visibilità e del tutto estranea a qualunque forma di partecipazione alla vita pubblica e ancor meno ai suoi aspetti decisionali ma,parlando con te e il vostro gruppo, le cose sembrano essere diverse.

Che ruolo hanno avuto, allora, le donne nel corso degli eventi dello scorso autunno francese?

Un ruolo spesso importante ma, prima di parlare di questo, è necessario parlare di ciò che è stato il movimento di lotta dell’autunno scorso. Prendere le attività delle donne e scorporarle da tutto ciò che è accaduto è un modo per minare l’unità che, non senza fatica e fino a un certo punto, si è venuta a determinare nel corso della lotta tra le varie anime della banlieue. Sulle donne di banlieue si sono spese fin troppe parole anche se, questo è il ridicolo della situazione, nessuna di coloro che ha scritto su di noi ha portato il suo prezioso culo qua dentro. Per questo ritengo che la prima cosa di cui bisogna parlare sono gli obiettivi messi al centro della rivolta e non farsi intrappolare all’interno di un terreno che non è il nostro.

Di questi, parlo degli obiettivi attaccati, nei vari organi d’informazione non vi è traccia. Quello che è stato, aggiungerei volutamente e con gran pace di tutti, mostrato, è l’aspetto irrazionale della rivolta. Invece le cose sono andate in modo diverso. Si è parlato tanto delle auto incendiate come se quelle fossero l’unico obiettivo, in realtà i principali obiettivi presi di mira erano altri, la polizia e i commissariati ovviamente, e di questo un po’ si è detto, anche perché quando si è cominciato a parlare di una regia della criminalità, per il resto inesistente, parlare dell’assalto ai commissariati poteva far comodo per sostenere questa tesi. Ma non è stata solo la polizia a essere attaccata.

I Centri del lavoro in affitto e non poche strutture e proprietà del lavoro nero, e in alcuni casi anche alcuni suoi degni rappresentanti, sono stati attaccati non meno dei commissariati.

A farlo sono state soprattutto donne.

Di questo sulla stampa e nelle televisioni non vi è traccia. Puntare l’attenzione su tutto ciò è importante perché, visto che in tanti sembrano interessati alla condizione delle donne in banlieues, hanno molto a che vedere con le donne. Perché?

Cosa sono i Centri del lavoro in affitto lo sanno tutti. Sono quelli che regolano l’accesso al mercato del lavoro a tempo e a condizioni vantaggiose per le aziende. Sono anche organizzazioni di ricatto e controllo sociale, politico e sindacale, perché se sei una o uno che organizza la lotta e il conflitto sul posto di lavoro, o in ogni caso sei una che non si fa mettere i piedi addosso, sei fatta fuori. Puoi stare sicura che, per te, molto difficilmente ci sarà un nuovo contratto. Finisci tra gli indesiderabili e non lavori più.

I Centri sono tra le principali armi messe a punto dal capitalismo per rendere innocui i lavoratori e le sue parti più deboli e ricattabili, cioè le donne. Ecco perché c’è un legame strettissimo tra la ristrutturazione del lavoro capitalista e la nostra condizione di donne lavoratrici. Quindi i luoghi dello sfruttamento sono stati tra gli obiettivi principali del movimento e sono state proprio le donne ad aver maggiormente focalizzato l’attenzione su questi aspetti. Se vogliamo parlare di differenze di genere nel corso della lotta, dobbiamo dire che gli uomini guardavano con maggiore interesse i commissariati, le donne tutto ciò che aveva a che fare con la produzione.

Questo è anche facile da capire perché i maschi subiscono più la pressione dei flics, noi quella dei capi e dei padroni. Quindi, avete individuato nella produzione la contraddizione principale. Puoi raccontare qualcosa su come vi siete mosse e su come avete scelto gli obiettivi da colpire?

Oltre ai Centri non sono state poche le strutture produttive, quelle che usano esclusivamente lavoro nero e semi coatto, che sono andate in cenere. La maggior parte di queste sfruttano, attraverso la parcellizzazione del lavoro, soprattutto il lavoro femminile.

Un lavoro a cottimo che si svolge all’interno delle case. Oppure, altro caso non infrequente, adattando a laboratorio magazzini e scantinati dove le donne lavorano quasi come in un campo di concentramento, in condizioni prive di qualunque sicurezza, senza areazione, con orari di lavoro mai inferiori alle dieci ore, sotto il controllo di capi violenti, maneschi e arroganti.

Alcuni gruppi di donne, e questo te lo posso garantire perché ho contribuito a organizzarne alcuni, mentre nelle strade era in corso la battaglia ha regolato i suoi conti con i propri padroni e guardiani. Quando non è stato possibile attaccare i magazzini, abbiamo ripiegato sulle auto o sulle abitazioni. Qualche caid è andato incontro anche a incidenti. Qualche osso si è rotto è non è stato certo il nostro.

Questo dovrebbe dare un quadro almeno un po’ diverso della rivolta e soprattutto del ruolo per nulla subordinato o addirittura invisibile che le donne vi hanno giocato. Ma non è questo, mi sembra, la cosa che va maggiormente messa in risalto. Mi sembra più importante invece parlare del silenzio che, a partire dagli stessi partiti e movimenti di sinistra, c’è stato su questo. Il fatto che la rivolta abbia messo al centro, o tra gli obiettivi più importanti, la critica all’organizzazione capitalistica del lavoro e questo sia passato del tutto inosservato, dice molte cose. Dice, ad esempio, che il lavoro per una parte della società è una cosa completamente diversa che per l’altra. Si tratta di due mondi che parlano lingue diverse dove, per gli uni, vi sono opportunità e possibilità mentre per gli altri una rigida subordinazione, dominazione e ricatto.

La vera questione è che oggi il mondo è cambiato radicalmente nella sua base materiale e strutturale, con ricadute molto grosse.

È come se esistessero due mondi, abitati da specie diverse. E questi due mondi, per quello che mi riesce vedere, non sono separati semplicemente com’era anche in passato, dalla diversa posizione occupata all’interno della scala sociale ma che rimandava a un modello sociale unico, bensì dall’appartenenza a due realtà il cui colore è il bianco e il nero. Forse per questo la critica all’organizzazione capitalistica del lavoro è estranea a gran parte della sinistra perché, in fin dei conti, è un’organizzazione bianca, quindi anche la loro. È questa organizzazione che determina la condizione della donna in banlieue.

IL VIAGGIO CONTINUA

Quello che emerge dalle parole di M. B. è una divisione del mondo che non sembra lasciare spazio a possibili mediazioni. Il racconto di G. Z., una giovane black/blanc che per un certo periodo ha fatto parte di alcuni movimenti e associazioni della «sinistra bianca e rispettabile», sembra ampiamente confermarlo.

Tu sei tornata a lavorare politicamente in banlieue dopo un’esperienza in altri ambiti. Perché?

Nel corso degli anni Novanta il lavoro politico e sociale all’interno della banlieue ha subito una notevole frammentazione.

Questo è stato soprattutto la conseguenza di alcune trasformazioni generali che hanno avuto notevoli ricadute nei nostri territori delle quali solo in seguito si è iniziato a prendere coscienza. All’interno delle aree che avevano portato avanti l’intervento in banlieue, si è sviluppato il dibattito sull’esigenza di un rapporto maggiore con i vari mondi politici.

In poche parole si è posto il problema se rimanere in banlieue, per portare avanti in maniera autonoma un discorso completamente incentrato sulla specificità dei nostri territori, oppure portare la banlieue all’interno del discorso politico più generale. Una buona parte di noi ha scelto questa seconda ipotesi. Anche se molte delle critiche che erano state avanzate alle esperienze politico - istituzionale continuavamo a considerarle in gran parte valide, l’assenza di sbocchi che il nostro lavoro autonomo ormai evidenziava, ci ha portato a riconsiderare in maniera diversa il rapporto con alcune realtà che si stavano mettendo in movimento. In molti, pertanto, abbiamo deciso di cercare una sponda fuori dalla banlieue. Un’esperienza che, per me, è stata particolarmente deludente ma che mi è anche servita per capire molte cose sul mondo di oggi, il tipo di contraddizioni che si sono aperte e la loro natura. Perché c’è qualcosa di molto diverso rispetto al passato.

In che cosa consistono, sulla base delle tue esperienze, maggiormente queste differenze?

Vedi, la vecchia contrapposizione, tra chi aveva aderito ai progetti della sinistra istituzionale e chi invece aveva optato per una strada diversa, non era altro che una contrapposizione tra chi seguiva un’ipotesi chiamiamola realista e riformista e chi non rinunciava alla messa in cantiere di un progetto più critico e radicale.

Le infinite discussioni, le banalizzo un po’, erano sui modi, i metodi, i tempi. Tutto questo, almeno formalmente sembrava essere una discussione tra persone che vogliono andare nella stessa direzione, che perseguono gli stessi obiettivi ma sono in disaccordo su quale strada seguire.

Bene, oggi questo orizzonte comune non esiste nemmeno più sulla carta. Se prima, tra noi e loro, la differenza era politica oggi credo che sia possibile parlare di una differenza che nasce su tutt’altri presupposti. Il problema non è su come si interviene e si sta in banlieue ma essere o meno un banlieuesard.

Mi spiego con un esempio che rende immediatamente chiaro la cosa.

In passato, essere un abitante della banlieue, finiva per essere una specie di valore aggiunto. All’interno dei mondi della politica riformista, essere un banlieuesard, poteva essere un buon viatico per far carriera. Certo, dovevi rimanere dentro ad alcuni schemi è ovvio, ma una volta dentro il gioco l’essere un banlieuesard poteva essere quasi un vantaggio.

In che senso?

Per certa sinistra c’era quasi il mito dell’abitante della periferia. Non pochi hanno utilizzato il loro status originario per accedere a, seppur piccole, carriere. Addirittura accentuavano, quasi in maniera parossistica, alcuni tratti da banliuesard. Il banlieuesard era un oggetto di culto, coccolato e ambito. Il banlieuesard era visto come il buon selvaggio, il grado zero ma puro della classe, i suoi comportamenti poco perbenisti e rozzi, negli immaginari degli intellettuali e degli appartenenti alla classe media della sinistra, soddisfacevano il loro bisogno di incontrare il popolo e il rappresentante del popolo aveva tante più chance di affermarsi rimanendo, almeno in gran parte, popolo e comportandosi come la borghesia progressista immaginava dovesse essere uno del popolo. Si può, a ragione, obiettare sulla poca dignità personale di un individuo che si presta, al limite del buffonesco, a impersonare la maschera del popolano che la borghesia progressista immagina ma questo è un altro discorso.

Ovviamente io non ho mai accettato di essere la popolana e sono sempre stata molto critica verso questi comportamenti ma non è certo per valorizzarli che tiho raccontato queste cose.

L’ho fatto per mettere in evidenza come, per tutto un periodo e con tutte le contraddizioni che c’erano, l’essere un abitante della banlieue non era socialmente disprezzabile. Sia chiaro, non sto difendendo quel modello sto semplicemente dicendo che la banliue non era invisibile ma, semmai, soffriva di un eccesso di visibilità sociale. Per tutti, mostrare un banlieuesard che tale rimaneva cioè urbanizzato ma non troppo, questo come vedrai è l’aspetto fondamentale, era il classico fiore all’occhiello.

Non solo. Il banlieuesard diventava, in qualche modo, oggetto di culto se, in lui, si poteva esemplificare l’intera banlieue. Un banliuesard come individuo non aveva alcun senso, e quindi in quanto tale non poteva neppure pensare di avere un qualche successo o affermazione, ma doveva essere sempre l’espressione, il rappresentante della banlieue.

Per questo doveva, in ogni occasione, pubblica ma anche privata, mantenere un certo modo di essere e di fare.

In questo gioco tutto girava intorno alla rappresentanza, a ciò cheuno finiva con il personificare. Per quanto in maniera distorto c’era, per la società, un riconoscimento di un intero corpo e blocco sociale. Il popolo, mettiamola così, aveva pieno diritto a esistere e a manifestarsi. Chi ha fatto un po’ di carriera l’ha fatta giocando su questo. E invece adesso?

Tutto questo che ti ho detto mi serve per raccontarti invece quello che accade oggi che è esattamente l’opposto ed è quanto ho potuto concretamente sperimentare in prima persona. Se alcuni come me, a un certo punto, hanno deciso di interrompere quel tipo di esperienza, tornando a fare intervento in banlieue, altri sono rimasti a lavorare in alcune realtà. Anche questi hanno fatto, per piccola che possa essere, un po’ di carriera.Ma l’hanno fatta assumendo comportamenti e atteggiamenti esattamente opposti a quelli che li avevano preceduti. In poche parole se prima esisteva il mito positivo del banliuesard, in quanto popolo, oggi questo mito si è rovesciato in pura negatività, il banliuesard non è più la personificazione del popolo ma della teppa, dello sfigato, dell’invisibile, del premoderno, del presociale, dell’emarginato, del preglobale o non so più che cosa. In ogni caso è qualcosa che non può essere rappresentato ma deve essere reso invisibile.

Questo cosa comporta?

Allora succede che per essere accettato devi mostrare, fino all’eccesso, di esserti lasciato completamente alle spalle, di aver reciso ogni cordone ombelicale con il tuo passato, con le tue origini. Devi morire come banliuesard e rinascere come individuo. Questo è un gioco al quale alcuni si sono prestati. Ora tutta la loro vita è un continuo cancellare tutto ciò che sono stati. Si vergognano delle loro origini, non mettono praticamente più piede in banlieue e quando parlano di noi dicono: quelli là. Il loro comportamento è tipico di tutti i rinnegati. Forse più di altri ci considerano pure escrescenze e nullità sociali. Tutto questo ti dice molto su come delle cose siano cambiate.

La periferia non rappresenta più un mondo, una realtà con la quale il centro deve fare i conti ma l’ignoto. Quello che ha detto Sarkozy, ovvero che noi siamo un semplice problema di karcher, di pulizia, stringi, stringi è un po’ quello che pensano tutti anche se poi non tutti arrivano alle sue stesse conclusioni operative. Ma che cos’è alla fine la banlieue se non il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro basso, più mal pagato e meno appetibile? Che cos’è la banlieue se non il luogo dove più alto e intenso è lo sfruttamento? In banlieue vivono milioni di persone e la favola che le banlieues siano improduttive, parassitarie, completamente assistite non sta in piedi. Vorrebbe dire che in Francia ci sono milioni di persone che non producono ricchezza e profitto e dove starebbero, invece, quelli che la producono? In quali quartieri abitano? Dove sono? È vero, le statistiche indicano nella banlieue il luogo dove è maggiormente concentrata la disoccupazione ma è una verità parziale.

In realtà, la banlieue, è il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro deregolamentato per cui, il vero paradosso, è che non c’è nessuno che lavora tanto quanto chi è ufficialmente disoccupato.

Questo, inoltre, è particolarmente vero se guardiamo alla popolazione femminile sulle cui spalle, in non pochi casi, regge l’intera economia familiare. Ma questo è il punto.

La banlieue è il luogo dove è concentrata quella fetta di lavoro che, nelle società attuali, non ha più alcuna legittimità e riconoscimento sociale. Il mito che in un’epoca neppure troppo distante in molti nutrivano verso il popolo della banlieue rimandava al riconoscimento politico e sociale che il lavoro operaio e proletario aveva nella società. Oggi è questo a non avere più alcun riconoscimento anzi a essere oggetto di pregiudizio e stigmatizzazione.

L’isolamento della banlieue, in realtà, è l’esatta fotografia delle condizioni in cui è precipitato il lavoro che non fa figo. (G. Z.)

IN DIVISA

L’attenzione e le riflessioni delle donne di banlieue ci restituiscono un quadro dei «quartieri popolari» francesi ben distante da quello a cui media, mondi politici e gran parte dell’intellighenzia abitualmente ci offrono.

Non solo l’intero movimento dei banlieuesards si mostra molto meno «impolitico» di quanto la società legittima abbia cercato di mostrare ma le donne, o per lo meno una parte significativa di loro, sembrano ben distanti dall’incarnare e accettare un ruolo mesto e subordinato al «potere maschile». Anzi, per certi versi, sembrano proprio loro ad aver colto con non poca lucidità il «cuore» della contraddizione individuando nelle trasformazioni che hanno attraversato l’organizzazione capitalistica del lavoro il nodo centrale del problema. Ma le donne, o perlomeno alcune di loro, sembrano avere avuto ruoli non secondari anche all’interno della «questione militare» aspetto che, secondo le retoriche maggiormente accreditate sulle donne di banlieue ha a dir poco dell’incredibile. Di tutto questo ne offre un’esauriente ricostruzione Z., una giovane francese black della banlieue di Argenteuil, che ha lavorato a fondo in questo settore.

Hai avuto un ruolo importante nell’organizzare e gestire alcuni ambiti «militari» nel corso della rivolta. Puoi descrivere, almeno per sommi capi, i problemi che hai dovuto affrontare?

Intanto bisogna spiegare un po’ di cose, altrimenti si finisce con l’avere un’idea molto falsificata. Noi, ma è una cosa che credo succeda sempre, abbiamo dovuto organizzare la guerriglia combattendo su due fronti: uno esterno, uno interno. Quello interno, per certi versi, è stato quasi più importante dell’altro. Gli sbirri per colpire con una certa precisione devono ricevere delle informazioni ma non solo. In non pochi casi hanno hanno anche bisogno di trovarsi il terreno spianato. Avere, per esempio, persone che mettono in giro informazioni sbagliate al tuo interno, per loro, può essere fondamentale perché ti induce a muoverti esattamente nella direzione che loro vogliono. Allo stesso modo ricevere informazioni su dove intendi colpire, oppure attraverso quali percorsi intendi raggiungere un obiettivo, attaccarlo e sganciarti, per loro sono informazioni essenziali.

Un’altra cosa importante è ricevere informazioni sui livelli di organizzazione raggiunti al nostro interno. Infine, dovendosi muovere in un territorio praticamente sterminato come il nostro, diventa decisivo scoprire e individuare quali e dove sono i nostri rifugi e il nostro logistico. Un lavoro che può essere fatto solo disponendo di una buona rete di spie e informatori all’interno dei nostri territori.

Poi, ma questo è un problema che si è posto in un secondo momento, abbiamo dovuto misurarci con alcuni tentativi da parte dei fascisti di costruire dei gruppi di contro guerriglia dentro la banlieue. Questa, così come siamo stati in grado di ricostruirla, è stata un’iniziativa più ufficiosa che ufficiale. È partita autonomamente da alcuni ambienti di estrema destra della polizia nei confronti dei quali il potere ufficiale ha fatto finta di niente. Se funzionavano bene, altrimenti lui non c’entrava. Le classiche operazioni sporche che se riescono bene, altrimenti nessuno ne sa niente. Ma questo, come ti dicevo, è avvenuto in un secondo momento e forse è stato anche il problema minore.

Il vero problema è stato neutralizzare la rete di spie e informatori il che, come è forse facilmente intuibile, non è assolutamente una questione diciamo tecnica.

Quindi, ha comportato la messa a punto di una struttura organizzativa in grado di stanare spie e infiltrati.

Un lavoro non facile che comporta, per chi se ne assume l’onere, capacità di varia natura e, soprattutto, una stima e un riconoscimento sociale non indifferente?

Sì, credo che il modo come mi hai posto la domanda sia quello giusto. Per fronteggiare una rete di quel tipo è occorso soprattutto la messa a punto di una struttura in grado di fare una serie di mosse. Ma forse è meglio portare degli esempi piuttosto che affrontare la questione in modo troppo astratto. La prima cosa da fare è stata socializzare l’infinita serie di informazioni di cui, in maniera frammentata, eravamo comunque in possesso. Questo è stato il primo passaggio e non è stato un semplice passaggio tecnico. Per arrivare a questo si è dovuto rompere con la logica di setta che sia le gang sia alcuni gruppi si portavano dietro.

C’è stata la tendenza da parte di molti a porsi continuamente come gruppo autonomo, separato dagli altri che, al massimo, poteva allearsi con altri ma senza perdere la propria identità.

Questa è palesemente una cazzata perché in questo modo non si fa altro che fare il gioco del nemico che ha tutto l’interesse a tenerci divisi. Certo, unirsi non è una cosa che si può fare semplicemente sommando le varie realtà come se nulla fosse ma occorre delineare un ipotesi collettiva nella quale, le diverse esperienze, si possono riconoscere. Accanto a questo, che è il problema di contenitore generale, ne compare un altro non meno importante. In realtà la resistenza a unirsi e a mettere insieme le forze, non dipendeva solo da ipotetiche differenze ma dalla resistenza che i piccoli leader o boss ponevano perché, in quel modo, vedevano venir meno il loro micro potere. Il processo di costruzione di una struttura rivoluzionaria, se vuole essere tale, non può esimersi dal mettere in discussione anche ciò che avviene al tuo interno, mettendo in luce quanto le logiche del dominio e del potere hanno fatto presa anche tra coloro che sono pronti a battersi contro i dominatori.

Quindi, a partire da un problema apparentemente tecnico, si sono dovuti affrontare dei nodi molto più complessi che hanno posto molti di fronte alle loro contraddizioni obbligandoli, però, a dover compiere delle scelte. Un processo utile perché ha consentito di fare chiarezza dentro al movimento facendogli compiere un salto in avanti.

Dentro tutto questo, il tuo essere donna, ha comportato dei problemi?

Alcuni. Il problema va posto sotto due aspetti. Il primo rimanda al fatto che, abitualmente, gli scontri di strada sono fatti da uomini e ragazzi mentre le donne ne rimangono per lo più fuori. Questo porta molti a pensare che ogni questione che ha a che fare con l’uso della forza sia monopolio dei maschi.

Sarebbe però sbagliato vedere in questo una contrapposizione tra donne e uomini perché il vero problema è un altro e ha a che fare direttamente con la dimensione politica. Il problema non è la forza o la violenza in quanto tale ma l’organizzazione e la gestione politica della forza. Questo cambia completamente la cornice in cui l’esercizio della forza e la sua organizzazione vengono posti.

Quello che si è dovuto far capire è che la gestione della lotta che stavamo conducendo non poteva assumere le stesse dinamiche degli abituali conflitti di strada. Si è trattato, e in parte siamo stati in grado di farlo, di trasformare e far evolvere una situazione per indirizzarla verso un modello operativo molto diverso da quello abituale. A questo punto il conflitto tra uomo e donna ha potuto essere smussato perché il problema reale diventava chi era in grado di essere direzione di questo processo. Il confronto è avvenuto sulle qualità politiche, militari e operative dei singoli piuttosto che sull’appartenenza di genere. Se, in molti, hanno riconosciuto a me e ad altre questo ruolo direttivo lo hanno fatto sulla base della stima sociale che, nei fatti, ci siamo conquistate.

Questo è quanto accaduto in generale.

Poi ci sono state situazioni di tensione che avevano però una natura diversa. Alcuni capi gang sono stati contro di noi, e lì lo scontro a un certo punto lo abbiamo dovuto affrontare senza mezze misure, perché non volevano perdere la loro posizione di piccoli signori della guerra.

Allora, in quel caso, si è trattato di sputtanarli davanti ai loro gruppi mostrandoli palesemente incapaci di svolgere un ruolo che era ampiamente più grande di loro.

Quindi, alla fine, in alcuni casi alle donne è stato riconosciuto un ruolo non solo legittimo ma decisionale e dirigenziale?

Sì ma questo perché noi abbiamo sempre posto la questione sul terreno della prassi politica. Non abbiamo detto: noi siamo donne e quindi ci spetta questo o quello. Abbiamo dimostrato di essere in grado di organizzare e gestire un percorso politico con alcune ricadute militari e su quel terreno ci siamo confrontate. Non ci siamo messe a fare discussioni infinite che non avrebbero portato a nulla ma abbiamo messo al centro la questione della prassi.

Non butti giù dal piedistallo un piccolo boss andandogli a parlare in astratto di diritti ma lo sbatti a terra e lo calpesti mettendolo di fronte alle sue responsabilità e alla palese incapacità di far fronte a una situazione che ha perso del tutto la dimensione del micro conflitto urbano. Quando il problema diventa fronteggiare lo Stato e non una qualche gang rivale il gioco assume contorni che lui neppure riesce a intuire. A quel punto sei tu che hai in mano la situazione.

Torniamo a parlare delle spie di come avete affrontato il problema.

Il problema vero erano gli spioni non conosciuti e insospettabili. Questi erano dentro di noi e non sono certo quelli che se ne vanno in giro con la coccarda francese. Come saprai, una parte dell’economia della banlieue è fatta di micro traffici ed è intorno a questi che le Bac reclutano la maggior parte degli infiltrati. Perché è lì che trovano quelli più facilmente ricattabili. Allora lì si è trattato di fare una serie di inchieste al nostro interno che non sono state sempre facili anche perché, in una situazione simile, accadeva che qualcuno, per risolversi delle questioni personali, dei vecchi rancori o anche cose molto più stupide, mirava a screditare altri bollandoli come spie.

Un lavoro non sempre facile e che, in alcuni casi, ci ha portato a commettere degli errori mettendo sotto accusa persone che, poi, si sono rivelate completamente trasparenti.

Ma questo ti dà anche l’idea di come, nel momento in cui scendi sul terreno dello scontro reale, della prassi e non ti limiti alle chiacchiere, come ama fare la sinistra parigina dentro i salotti, gli scenari con i quali ti devi misurare siano tutt’altro che semplici e che, in definitiva, la guerra impari a farla solo facendola.

Infine il tentativo di colpire il movimento dall’interno con i gruppi para militari. Un’operazione che non ha avuto molto successo perché i tentativi tentativi che ci sono stati li abbiamo stroncati sul nascere.

Intanto bisogna dire che in banlieue c’è una forte propaganda razzista, principalmente anti araba, come del resto tutti sanno l’arabofobia è una cosa molto diffusa in Francia, che è portata avanti dai gruppi di destra legati a Le Pen i quali, in banlieue, hanno una certa forza, e che possono contare su appoggi e coperture sostanziose da parte delle Bac. Il rapporto tra Bac e gruppi nazisti è molto stretto e per certi versi sono la stessa cosa. Solo che gli uni sono legalizzati e gli altri ancora no.

Questi gruppi para militari sono stati utilizzati in due modi. Il primo è stato quello legale che hanno visto tutti grazie alla televisione e ai giornali. Erano i sedicenti cittadini che tutti correvano a intervistare e a riprendere grazie ad accordi ben precisi presi dalla polizia con gli organi di stampa e informazione.

In quel caso, i lepennisti, si mostravano come i bravi cittadini, facendo intendere di rappresentare la maggioranza della popolazione della banlieue che chiedeva il ripristino della legalità, dell’ordine e la repressione della rivolta. Come abbiamo saputo interrogando a lungo uno degli organizzatori di questa messa in scena volutamente, i toni tenuti nelle riprese e nelle interviste, erano improntate alla moderazione e a quello che comunemente si definisce il buon senso del cittadino medio. Erano tutti discorsi contro la violenza e che tendevano a mostrare la presa di distanza da parte della popolazione dagli incendiari con il chiaro intento di far apparire la guerriglia opera di gruppi assolutamente minoritari che non avevano alcuna legittimazione all’interno.

Una volta sbandierata ai quattro venti questa versione, diventava molto facile andare giù pesante nella repressione.

C’è stata, e questo ti dà anche un’idea della sostanziale unità che i vari poteri hanno raggiunto per contrapporsi a noi, una vera e propria propaganda di guerra da parte dei media e degli organi di informazione nei nostri confronti. Giornali e televisioni non facevano altro che riportare interviste ad abitanti delle banlieues che si dicevano stanchi di quanto stava accadendo. Questa, nelle nelle loro intenzioni, doveva essere l’inizio di un’operazione a più ampio raggio che, in un secondo momento, doveva far entrare in gioco i gruppi paramilitari camuffati da cittadini che si mobilitavano per ristabilire l’ordine.

Prima è partita la propaganda che doveva preparare il terreno di consenso, poi sarebbero entrati in azione questi gruppi.

Il progetto, però, non ha funzionato per almeno due motivi. Il primo è stato il tempestivo intervento delle forze militanti che hanno azzerato, attraverso una serie di azioni mirate, tutti o almeno gran parte delle basi che i paramilitari stavano approntando dentro le banlieues facendo, tra l’altro,un discreto bottino. Molte cose, molti strumenti che dovevano servire alla controrivoluzione sono passati nel logistico della guerriglia.

Probabilmente le Bac si saranno incazzate non poco! (Z.)

MINORANZA CONSAPEVOLE

Alla fine del viaggio, l’immagine della donna di banlieue ne esce non poco diversa da quella che la società perbene e rispettabile si è continuamente affannata a fornirci. Le banlieuesards non solo sembrano perfettamente in grado di prendere la parola in pubblico ma lo fanno con una lucidità e una consapevolezza che difficilmente trova riscontri analoghi tra la popolazione di genere maschile.

Certo, queste donne, sono pur sempre una «minoranza» ma non è questo il problema. Centrale, piuttosto, è il grado e il livello di legittimità e autorevolezza sociale che queste «minoranze» possono vantare.

Del resto, sembra il caso di ricordarlo, a prendere la Bastiglia secondo Adolphe Thiers non furono in più di settecento.

(da Alias del 13.1.07)

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2.2.07

 

«Così non va»: le sindacaliste bocciano la politica dei maschi

Convegno Cgil 250 delegate della Fisac fanno il punto sulla scarsa rappresentanza delle donne

«Le cifre di uno scandalo». Le donne nel nostro paese sono sottorappresentate nella politica e nei luoghi decisionali come anche nelle professioni. Questione quantitativa e insieme qualitativa, che tocca i problemi della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Problemi che riguardano tutte le sfere dell'organizzazione sociale e da cui non è esente neppure il sindacato, che pure prevede per statuto una norma anti discriminatoria (non pienamente realizzata).

Di tutto questo si è parlato nel corso della tre giorni di lavori che si è conclusa ieri a Roma, organizzata dalla Fisac Cgil (che rappresenta lavoratrici e lavoratori di banche e assicurazioni). Protagoniste, 250 delegate (e anche qualche delegato), in un confronto aperto sui temi del potere e della rappresentanza nel sindacato e della conciliazione tra vita quotidiana e impegno politico. Le lavoratrici, che costituiscono il 40% della categoria, hanno posto al sindacato i problemi del vivere quotidiano.

I numeri, «le cifre dello scandalo», sono quelli citati dalla relazione di apertura di Domenico Moccia, segretario generale Fisac Cgil. Il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello di ogni altro paese dell'Unione Europea (del 10% più basso della media). Solo lo 0,8% delle dipendenti arriva ad essere manager e il 4,9% ad assumere un ruolo di supervisione. Per non parlare del differenziale retributivo, davanti solo a quello di Grecia e Portogallo. In Italia, dice l'Istat, le donne hanno tassi di scolarizzazione più elevati e un maggiore livello quantitativo e qualitativo di istruzione. Eppure a tre anni dal conseguimento del titolo di studio continuano ad essere svantaggiate in termini occupazionali, con una quota solo del 38% e con retribuzioni inferiori del 15% (solo nel settore assicurativo, le donne, pur essendo il 45% del totale, percepiscono il 37% del totale retributivo). Indicativi sono i dati forniti dalle Casse di previdenza professionali: le avvocatesse guadagnano in media 24 mila euro, contro i 60 mila dei colleghi maschi; le commercialiste 33.700 euro a fronte dei 70 mila; le ragioniere 33.200 contro i 53 mila, e così via.Ancora, 1 donna su 15 siede nella Corte Costituzionale, 6 su 27 nel Consiglio superiore della magistratura. Nei quotidiani, una donna su dieci è caporedattore, e nelle Università solo il 20% ottiene un dottorato di ricerca. Per non parlare della politica: nel Parlamento, le donne sono il 10%, mentre nei sindacati sono il 6%. «Deprofessionalizzate, sottoinquadrate e sottopagate» conclude Moccia.

«La questione è quella di creare un circolo virtuoso tra la valorizzazione delle competenze femminili e il problema della conciliazione» dice Marina Piazza, presidente di Gender. In altre parole, non ha senso parlare di azioni di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, se poi queste azzerano la professione. Creando un altro tipo di segregazione della forza femminile. Il part time ad esempio, se non è contrattato ai piani alti, si rivela un altro strumento di marginalizzazione. Una politica delle quote più incisiva? «Sì - risponde Piazza - credo che debba esserci una prima fase che abbia al centro la questione quantitativa». Ma le politiche di genere - conclude Piazza - dovrebbero essere parte di tutte le politiche e per parlare di conciliazione, è necessario ridisegnare l'intera mappa del welfare.«Il convegno ha toccato temi che ci chiamano in causa direttamente» dice Nicoletta Rocchi (Cgil). Le oltre duecento delegate della Fisac Cgil, scelte tra quelle più giovani, lo hanno detto chiaro è tondo: è ora che anche il sindacato si occupi di noi. E lo hanno fatto confrontandosi su problemi soggettivi e oggettivi, tra di loro e con i delegati (pochi) che hanno partecipato. Il discorso tocca anche loro. (Sara Farolfi)

(il manifesto, 1.2.07)

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"La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale"

(Camilla Ravera - L’Ordine Nuovo, 1921)

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Sciopero generale, subito!

Stop agli omicidi del profitto! Blocchiamo per un giorno ogni attività. Fermiamo la mano assassina del capitale. Organizziamoci nei posti di lavoro in comitati autonomi operai con funzioni ispettive. Vogliamo uscire di casa... e tornarci!

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