31.12.07

 

Dall'Iraq alla Siria, da donne a merci


La prostituzione femminile è una delle principali attività tra i 500.000 iracheni fuggiti in Siria. Oltre 50.000 donne sono costrette a vendere il proprio corpo, spesso sotto la «protezione» delle famiglie. Moltissime le minorenni: qui il mercato apprezza soprattutto la verginità. Anche quella dell'imene ricostruito (Giuliana Sgrena)

Damasco. Grandi edifici tutti uguali, color ocra, nuovi ma già fatiscenti, sono i condomini costruiti dal governo siriano per risarcire i proprietari di case e terreni espropriati per opere pubbliche. Ci troviamo all'estrema periferia di Damasco, nel quartiere nuova Hussaniya, una scuola dell'Unrwa indica la presenza di profughi palestinesi, accanto a molti iracheni. In uno di questi appartamenti anonimi incontriamo la famiglia di Adnan Abdelkarim Hassan. Come in tutte le case dei profughi iracheni non c'è nessuna suppellettile, ma qui ci sono delle sedie e non solo strapuntini per terra e come in tutte le case una televisione è sempre accesa: in alcuni casi serve per intrattenere i bambini, ma soprattutto per avere notizie dall'Iraq. E anche Adnan, 65 anni, vestito con la tradizionale dishdasha e con il subha (rosario) in mano, è seduto davanti alla tv. Ma non si limita a guardare le notizie su tutte le reti arabe - al Arabiya, al Jazeera, al Iraqiya, al Hurra, al Sharqyia, meglio non fidarsi di una sola versione -, a fine giornata annota in un quaderno tutte le notizie irachene del giorno. «Questo è il mio contributo alla resistenza - dice - c'è chi usa le armi e chi la penna» e mi mostra i quattro quaderni di grandi dimensioni dove è raccolta la sua cronaca dell'Iraq.

Ha lasciato il suo paese, dopo che era andato in pensione (lavorava al ministero dell'edilizia) e il fratello era rimasto ucciso nella sua casa da uno dei bombardamenti americani su Haditha, tristemente famosa per questo tipo di massacri. Soprattutto è fuggito per proteggere i figli: il più grande si chiama Omar e basta un nome sunnita per essere ucciso dalle milizie sciite a Baghdad, tant'è vero che l'ultimogenito è stato chiamato Ali, inviso ai sunniti. La figlia invece l'avevano fatta sposare giovanissima. Per proteggerla, dicono i genitori. Ma, dopo un mese di matrimonio, il marito è stato ucciso da un'autobomba mentre andava al lavoro. Lei, giovane sedicenne, vedova e incinta, ha raggiunto i genitori a Damasco e, dopo aver perso il bambino, ha ricominciato a studiare. Per lei in fondo la vita è ricominciata proprio quando quella dei genitori si è fermata. La sua aria dolce e schiva non nasconde la volontà di continuare a vivere una vita sua.

Una scuola per profughi

In Siria gli iracheni hanno il diritto di andare a scuola - un diritto acquisito solo recentemente in Giordania -, ma solo il 10% dei ragazzi in età scolare approfitta di questa opportunità. Gli altri spesso lavorano per mantenere la famiglia: il 10% delle famiglie dei profughi sopravvive con il lavoro dei propri bambini. Anche bambine, che lavorano in fabbrica dieci ore al giorno o sostano per strada con una bilancia per far pesare i passanti in cambio di poche lire siriane. Anche la famiglia di Adnan sopravvive con il lavoro del figlio più piccolo, dopo che l'introduzione del visto non gli permette più di andare in Iraq a riscuotere la pensione (180 dollari ogni due mesi) e a ritirare le razioni di cibo governative, mentre all'affitto della casa di Baghdad ha già dovuto rinunciare quando è stata occupata dalle milizie sciite. Ali però a scuola ci va e lavora nelle vacanze, mentre il fratello maggiore non trova un'occupazione qualsiasi, in nero, naturalmente. Inoltre molti bambini soffrono di problemi psicologici per la violenza vissuta in Iraq o semplicemente, perché a causa della guerra hanno perso due-tre anni di scuola, si sentono a disagio in classi dove gli alunni siriani sono molto più piccoli. Infine poiché il sistema educativo siriano è diverso da quello iracheno, l'inserimento è difficile, nonostante la lingua sia la stessa. L'inglese, per esempio, in Siria viene studiato dal primo anno di scuola, in Iraq invece dal quinto.

Per supplire a questo ritardo Faiza, una donna molto attiva (prima in Iraq e ora in Siria, dove lavora spesso come fixer con i giornalisti) e madre di due figli, ha deciso di aprire a casa sua un corso di inglese, gratuito, per studenti fino ai 18 anni. Il corso si tiene di venerdì, dalle 10 alle 16, con turni di due ore per ogni gruppo. Ad insegnare oltre a lei ci sono altre insegnanti irachene, ora disoccupate, e giovani studenti di madrelingua inglese che si trovano a Damasco per studi. Sono già 75 i ragazzi iscritti, ma lo spazio è ristretto, la piccola sala è molto affollata, ognuno fa del suo meglio per permettere a tutti di seguire le lezioni, ma occorrerebbero delle aule. Le bambine sono le più vivaci, soprattutto quando sono piccole, poi crescendo, assumono un ruolo più dimesso sotto il pesante velo nero. Faiza organizza i turni di studenti e insegnati, si preoccupa se qualcuno manca, chiama i genitori - il cellulare è fondamentale per i contatti quotidiani degli iracheni - se non vengono a prendere i figli.

In un angolo della stanza vi è Dumua, una ragazza di 15 anni, analfabeta, è venuta un giorno ad accompagnare due sorelline più piccole che vanno a scuola, già coperte da capo a piedi da un pesante velo nero, e Faiza l'ha convinta a imparare a leggere e scrivere. Dumua è arrivata qui da Kerbala con la sua famiglia, genitori e otto figli. Ha fatto solo la prima elementare perché la sua famiglia si muoveva spesso e il padre, molto conservatore e anche lui analfabeta, non si curava certo dell'educazione dei figli e soprattutto delle figlie. Dumua però vuole imparare a leggere e scrivere, perché, dice, non sa neanche riconoscere le insegne per strada e deve sempre chiedere aiuto a qualcuno. Faiza l'ha affidata a Um Haidar, in Siria dal novembre del 2006, perché il marito ha dovuto scappare dall'Iraq. Medico, specialista in cardiologia, specializzato in Gran Bretagna, aveva diretto un dipartimento al ministero della sanità, ma era considerato un «collaborazionista» e quindi ha dovuto lasciare il paese. Ora non può più lavorare, sta chiuso in casa con una forte depressione e spesso è violento con figli, racconta Um Haidar. Ma è una storia che abbiamo sentito raccontare da molti tra i profughi iracheni. Sono gli uomini i più depressi: si chiudono in casa, spesso perché hanno paura a uscire oppure semplicemente perché non hanno un motivo per farlo. Tra i profughi sono le donne ad avere una reazione più positiva alla vita di stenti, sono loro ad affrontare le situazioni più penose e anche a prestare aiuto a chi sta peggio.

La tratta delle giovani

Ed è spesso la disperazione anche a indurre molte giovani irachene sulla strada della prostituzione. E non sempre consapevolmente: tra l'Iraq e la Siria vi è una vera e propria tratta di giovani donne che vengono poi costrette a prostituirsi. A volte i trafficanti del sesso rapiscono le donne e le narcotizzano per portarle via, altre volte fanno leva sulla loro miseria per convincerle, altre ancora è il padre a venderle per ottenere un po' di soldi.

Sono giovanissime. Proveniva da Falluja la ragazza dodicenne incontrata da Walid, volontario di una ong siriana, in un night club di Damasco. È arrivata in Siria con le sorelle dopo che tutti i maschi della famiglia erano stati uccisi. «Voglio solo un tetto sulla mia testa e ho bisogno di un lavoro. Non importa se buono o cattivo, devo aiutare la mia famiglia», spiegava la ragazzina la cui testimonianza è contenuta in un rapporto dedicato dall'Unicef Siria alle adolescenti irachene. I nightclub sono i luoghi privilegiati per la prostituzione. A volte sono le madri ad accompagnare le figlie e ad aspettare che finiscano il loro lavoro per riaccompagnarle a casa, discretamente. Altre volte è il padre di famiglia che affitta un appartamento, soprattutto nel quartiere di Jaramana dove vivono molti profughi cristiani, e poi invita i clienti ad avere rapporti con figlie e moglie. In inverno i clienti sono soprattutto siriani e iracheni, mentre in estate arrivano gli sceicchi del Golfo, che preferiscono dare al loro rapporto una copertura con un «matrimonio di piacere» (temporaneo), ma pretendono che le ragazze siano vergini e sono disposti a pagare migliaia di dollari. Un business a cui non possono rinunciare i «procuratori», tra di loro ci sono anche donne. Ma le ragazze, costrette a prostituirsi molto giovani, spesso vergini non lo sono più così si ricorre alla ricostruzione dell'imene, attività fiorente in Siria come in altri paesi dove la verginità resta un tabù. Difficile avere dati e contatti con le donne che si prostituiscono perché la prostituzione è illegale e chi la pratica rischia l'arresto. Secondo Hana Ibrahim dell' Iraqi women's will organization in Siria ci sarebbero circa 50.000 prostitute irachene, molte sotto i 18 anni.

Difficile anche il tentativo di recuperarle da parte dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) e non solo per la loro invisibilità (spesso vivono ostaggio dei trafficanti, chiuse nelle loro case dove vengono maltrattate e mantenute con poco cibo) ma anche perché al massimo con un lavoro normale (al nero visto che non hanno permesso di lavoro) potrebbero guadagnare 60/80 dollari al mese, quanto guadagnano prostituendosi in una notte. Se le autorità le individuano vengono deportate in Iraq, questo non impedisce che ritornino in Siria con documenti falsi. Spesso è la loro stessa famiglia a «rivenderle» se tornano a casa. Ci sono state anche donne coraggiose che sono andate alla polizia per denunciare lo sfruttamento sessuale, ma sono state deportate dopo aver subito violenza anche dai poliziotti. In mancanza di una legislazione adeguata (l'Organizzazione per la migrazione sta lavorando per una legge contro la tratta), finora a Damasco l'unico modo per sfuggire al rischio di essere uccise se sfuggono alle «regole» imposte dai loro «protettori» o di essere rivendute dai loro familiari è quello di rivolgersi alle suore del Buon pastore che hanno costruito una casa rifugio per proteggere queste donne a rischio. In febbraio, con l'aiuto dell'Unhcr, dovrebbe essere pronta una nuova casa rifugio che ospiterà 120 donne. Naturalmente si tratta di strutture che non sono in grado soddisfare tutte le richieste. Di donne a rischio sono il 20 per cento delle domande di «resettlement» in un paese occidentale.

Rapite e stuprate

Tra gli iracheni in attesa di partire vi sono anche due famiglie che incontriamo nel quartiere di Jaramana. Sono sabei, una setta religiosa preislamica originaria della Mesopotamia, sperano di poter raggiungere i parenti in Australia. All'inizio l'ambasciata australiana aveva accettato la loro domanda ma poi l'ha rifiutata: la sorella che vive in Australia non avrebbe le condizioni economiche richieste. Ma Zuheila e Mithaq, 33 e 28 anni rispettivamente, non possono tornare in Iraq. Il marito di Zuheila, come è tradizione dei sabei, aveva una gioielleria a Baghdad, ma nel giugno del 2006 è stata incendiata e distrutta. Da tempo erano minacciati perché non musulmani. Il marito aveva allora cominciato a fare l'autista tra Baghdad e Bassora. «Una mattina, mentre mio marito era in viaggio, ero in casa con i tre figli, la più piccola aveva solo cinque mesi, quando degli uomini armati hanno fatto irruzione nell'edificio e mi hanno portata via. Mi hanno narcotizzata, quando mi sono svegliata ero in un letto: per tre giorni sono stata violentata da cinque uomini, mi hanno rilasciata dietro il pagamento di 10.000 dollari», racconta Zuheila. Appena rimessasi dallo choc è fuggita con il marito e i figli. Dopo una ventina di giorni è stata raggiunta a Damasco dalla sorella Mithaq, che aveva subito la stessa sorte perché il marito vendeva alcolici. Sta ancora male ed è costretta a prendere antidepressivi, non riesce a raccontare quello che le è successo, si limita a piangere sommessamente. Come se non bastasse, il marito dopo il rapimento e lo stupro la ignora, è depresso e sta chiuso in casa. Non l'ha lasciata solo perché hanno tre figli, spiega la sorella, ma non si occupa nemmeno dei bambini. E Zuheila e Mithaq non hanno più nemmeno la speranza di poter partire per l'Australia.

(il manifesto, 29.12.07)

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27.12.07

 

Pma: "si ai test sugli embrioni"


Un'ordinanza del tribunale di Firenze accoglie il ricorso presentato da una coppia e contraddice la legge 40. «E adesso cambiare le norme»

E' lecito eseguire i test sugli embrioni da impiantare in una fecondazione assistita se c'è il rischio di trasmettere una grave malattia genetica. Lo ha deciso un giudice di Firenze con una ordinanza, che ha valore di sentenza. Il giudice ha riconosciuto le argomentazioni presentate dal legale della coppia in un ricorso contro la decisione di un istituto per la procreazione, il «Centro Demetra» di Firenze che, seguendo la legge, non aveva accettato di fare i test sugli embrioni. «La decisione scardina la legge sulla fecondazione assistita», ha detto l'avvocato Gianni Baldini, docente di biodiritto all'università di Firenze e legale dell'associazione «Madre provetta».

Protagonista del ricorso che ha portato a questa ordinanza è una coppia trentenne milanese. Lei è portatrice di una grave malattia, la esostosi, che genera la crescita smisurata della cartilagine delle ossa. «Questa malattia - ha spiegato Baldini - ha una trasmissibilità superiore al 50%, ecco perché la coppia ha chiesto il test sugli embrioni». Il giudice stabilisce anche che è lecito rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni se una gravidanza gemellare può mettere a rischio la salute della madre. «L'ordinanza non è revocabile - ha detto l' avvocato Baldini - quindi se il Centro Demetra non farà ricorso in appello diventerà esecutiva».

Ad esprimere soddisfazione per l'ordinanza sono state proprio le responsabili del centro fiorentino, Claudia Livi ed Elisabetta Chelo: «Questa decisione - hanno detto - apre nuove prospettive per il recupero di una autonomia decisionale del medico che sino a qui è stato sostanzialmente costretto dalla legge a una scelta terapeutica obbligata. Come si legge nel dispositivo - proseguono Claudia Livi e Elisabetta Chelo - l'operatore è tenuto a operare secondo le migliori regole della scienza in relazione alla salute della madre, come d'altra parte previsto dallo stesso codice deontologico».

Quella di Firenze è la seconda sentenza che interviene sulla legge 40. In precedenza, infatti, il tribunale di Cagliari aveva autorizzato una coppia portatrice di talassemia a fare il test sull'embrione prima del trasferimento in utero. Ma è proprio la sentenza toscana a essere ritenuta come fondamentale, visto che fa appello alla sentenza costituzionale che nel 1975 faceva prevalere i diritti della madre su quelli del nascituro.

Numerose le reazioni alla sentenza. Per l'associazione dei pazienti Amica Cicogna la decisione dei giudici crea un precedente. «Spero che questa grande importanza venga colta da tutti», ha detto la presidente Filomena Gallo, per la quale la legge 40 sulla fecondazione artificiale non è idonea in quanto sarebbe in contrasto con una sentenza costituzionale. Soddisfazione è stata espressa anche dal ministro per le Politiche giovanili Giovanna Melandri, convinta che la sentenza «dimostra che la legge 40, nel punto che riguarda il divieto di diagnosi pre-impianto, è semplicemente una legge crudele». Anche per Donatella Poretti, della Rosa nel Pugno, le linee guida della legge 40 «crollano a colpi di sentenza» e invita il ministro della Salute Livia Turco ad aggiornarle. Duri, invece, i commenti provenienti dal centrodestra. Per Isabella Bertolini vicepresidente dei deputati di Forza Italia, quella di Firenze sarebbe un'altra sentenza «contro il parlamento e contro il popolo». «Non è solo da oggi infatti - ha detto Bertolini - che una legge, votata da Camera e Senato e confermata dalla maggioranza degli italiani che, con la loro astensione hanno bocciato il referendum abrogativo, viene di fatto aggirata».

(il manifesto, 23.12.07)

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21.12.07

 

Cronache di lavoratrici in lotta


Trascurato dalla storiografia, il tema del lavoro delle donne all'inizio del Novecento è al centro del volume «Operaie e socialismo» della storica Fiorella Imprenti. A dispetto degli stereotipi, e grazie alla loro combattività, le organizzazioni femminili riportarono successi significativi (Michele Nani)

Nel giugno del 1902 Milano fu teatro di una singolare manifestazione: radunatesi di buon mattino, circa duecentocinquanta piscinine passarono in rassegna i principali stabilimenti di sartoria. Guidate dalla quattordicenne Giovannina Lombardi, le giovanissime apprendiste invitarono le loro compagne a unirsi alla lotta e inveirono contro le «crumire». Dinanzi al Duomo si spinsero fino a intonare l'Inno dei lavoratori, venendo disperse dalla forza pubblica, che pensò bene di trattenere in questura quattro ragazzine. Giunte alla Camera del Lavoro dovettero attendere il pomeriggio e ne approfittarono per un secondo corteo. Vennero infine accolte con un comizio in milanese e sempre in dialetto presentarono le loro rimostranze ai dirigenti sindacali: aumenti salariali e riconoscimento degli straordinari, alleggerimento dello scatolone utilizzato per le consegne, definizione precisa delle mansioni e dell'orario. Lo sciopero proseguì per più di una settimana e si concluse con una clamorosa vittoria: nonostante le condizioni difficili, circa cinquecento apprendiste fra i 9 e i 14 anni erano riuscite a lottare unite e a ottenere significativi miglioramenti.

L'episodio è emblematico tanto della presenza attiva delle donne nell'economia milanese nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento, quanto di un rilevante grado di organizzazione sindacale e di combattività. Eppure il lavoro femminile resta trascurato dalla storiografia, anche da quella più attenta al movimento operaio: spesso gli studi hanno riprodotto le rappresentazioni dell'epoca, che volevano le donne confinate alla sfera domestica o al lavoro dequalificato, e comunque socialmente passive. Tali stereotipi rimandavano allo status subalterno delle donne: nei rapporti sociali valevano a giustificare sia i bassi salari (pensati come complementi secondari del reddito familiare imperniato sul lavoratore maschio), sia la tradizionale sottovalutazione politica e sindacale delle potenzialità delle lavoratrici. Uno sguardo curioso e attento a fonti tradizionali (gli archivi di polizia, la stampa locale e quella socialista e sindacale, le inchieste dell'epoca) è sufficiente a rivelare quelle potenzialità, come conferma il bel lavoro di Fiorella Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la Camera del lavoro (1891-1918) (Franco Angeli, pp. 324, euro 23). L'autrice ricostruisce la sindacalizzazione di alcune categorie di tutto rilievo, forti di migliaia di lavoratrici. Il tessile, innanzi tutto: come altrove, anche a Milano le donne sfioravano i quattro quinti della forza lavoro dell'industria serica e cotoniera ed espressero capacità organizzativa, conflittualità diffusa e quadri dirigenti.

Industrializzata più tardi, con l'avvento della macchina da cucire, la sartoria milanese vide la rapida diffusione, accanto alle fabbriche, di un tessuto di laboratori semiartigianali e di lavoro a domicilio: a chi si attardava nell'immagine oleografica della «sartina», sedotta dal lusso della moda e dalle promesse di giovani rampolli, queste lavoratrici risposero con un serrato attivismo, che culminò nello sciopero cittadino del 1907. Le operaie impiegate alla manifattura tabacchi erano più garantite e in quanto dipendenti pubbliche godevano di maggiore continuità nel lavoro, di forme pensionistiche e di tutela: questa condizione non rese meno combattive le mille «tabacchine» milanesi, che dinanzi alla rigida disciplina si spinsero già nel 1901 a occupare gli stabilimenti.

Infine, le orlatrici dell'industria calzaturiera fondarono la prima «lega» femminile italiana, sorta a Milano nel 1883, e quindi promossero l'organizzazione regionale e nazionale di categoria: soggette a minori discriminazioni in seno al movimento, per via dello spirito libertario dei calzolai, furono politicamente radicali e per una fase optarono per il sindacalismo rivoluzionario. L'autrice delinea efficacemente l'emergere dell'organizzazione sindacale femminile in una delle capitali industriali del Regno d'Italia. L'alternativa fra la fondazione di leghe separate e la confluenza nei sindacati «misti» dipendeva in gran parte dalla struttura occupazionale. Nel primo Novecento si delineò tuttavia un processo di ricomposizione, favorito dalla transizione al sindacalismo «industriale» (concentrato in grandi categorie, oltre la frammentazione dei mestieri) e dai frequenti fallimenti delle rivendicazioni sorrette dalle sole organizzazioni femminili.

Il legame organizzativo più stretto con il movimento operaio favorì lotte e conquiste, ma non era una novità: andava infatti a rinsaldare il paziente lavoro del quindicennio precedente, quando si era costruito un rapporto di fiducia fra lavoratrici e Camera del lavoro, ma anche fra le prime organizzatrici sindacali e la politica di classe dei socialisti. In questa seconda fase il rapporto con le grandi federazioni, soprattutto con i tessili della Fiot, fu tuttavia problematico. Nel 1910 i dirigenti della Fiot si mostrarono ostili all'ingresso di una donna fra i rappresentanti sindacali in seno al Consiglio superiore del lavoro, scatenando le polemiche di socialiste e femministe. Sull'onda della discussione nacque una rubrica del periodico di categoria «Le Arti Tessili»: l'esperienza della «pagina della donna» durò due anni, ma si aprì alla voce delle operaie solo nella prima uscita, il 31 gennaio 1911. L'esperimento non resse alle provocazioni di Ercolina Lombardi contro l'atteggiamento dei compagni in merito alla condivisione delle fatiche domestiche, né alla presa di coscienza di una voce maschile: un giovane operaio biasimava chi trattava «ancora la donna come si trattava la schiava nei tempi antichi» e voleva «essere rapidamente servito (molti prendon moglie nient'altro che per questo) onde raggiungere i suoi compagni all'osteria».

(il manifesto, 20.12.07)

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17.12.07

 

La Francia lancia la "separazione light"


Parigi rompe un'altra tradizione del diritto di famiglia. In caso di consenso ci si divide evitando carte bollate, spese e lunghe attese (Anais Ginori)

Dopo i Pacs, la Francia rompe un'altra tradizione nell'ambito del matrimonio: nasce il divorzio lampo [in Francia se si richiede congiuntamente il divorzio, non occorre la previa separazione, NdR]. In caso di consenso di entrambi i coniugi, una nuova legge allo studio permetterà di sancire la separazione con una firma dal notaio, senza passaggi in tribunale. "Per le coppie sarà una procedura più semplice, rapida e meno traumatica", spiega Eric Woerth, il ministro dell'Economia che sta negoziando la riforma con i notai. I casi di separazione consensuale sono circa la metà dei 140mila divorzi consumati ogni anno. I promotori della legge, che verrà esaminata a gennaio, fanno notare che la possibilità di rinunciare all'avvocato comporterà un grosso risparmio (le parcelle possono arrivare fino a 4mila euro). E anche il ministro della Giustizia, la battagliera Rachida Dati, è a favore della misura, che solleverebbe un grosso carico di lavoro per i tribunali civili, dove i divorzi rappresentano il 13% delle cause.

Gli avvocati hanno già dichiarato battaglia alla riforma. Secondo i rappresentanti del foro, la nuova procedura è una minaccia per il rispetto dei diritti civili. "Nelle separazioni c'è sempre una parte forte e una debole", ha spiegato Violette Gorny, specialista del diritto di famiglia intervistata da Libération. "Il magistrato serve proprio a verificare che l'accordo è veramente alla pari". Anche quando c'è il consenso sulla separazione, possono rimanere controversi molti punti, dai beni in comune all'affidamento dei figli. "Il divorzio che si conclude felicemente per entrambi in coniugi è una rarità - conclude Gorny - per questo servono figure di mediazione e garanzia". Inoltre, fanno notare gli avvocati - che già hanno indetto uno sciopero per mercoledì - il risparmio sul fronte legale sarà probabilmente bilanciato dall'onorario dovuto al notaio.

Il "divorzio light", scrive oggi Libération in prima pagina, è la conseguenza di un paese che non crede più al matrimonio: il tasso delle unioni civili secondo la vecchia promessa suggellata davanti al sindaco è tra i più bassi d'Europa (4,5 ogni mille abitanti, contro 4,8 di Spagna, e 6,7 della Danimarca) e quasi la metà delle coppie prima o poi si separano. D'altro canto, il matrimonio "light", ovvero i Pacs inventati dal governo socialista nel 1999, e che prevedono proprio un unico passaggio davanti al notaio, stanno crescendo di anno in anno. Dai 6mila patti firmati nel '99, la Francia è arrivata ai 75mila del 2006. E contrariamente a quello che molti pensano, i Pacs non sono stati inventati per gli omossessuali, almeno non unicamente. Oggi più del 90% dei Pacs suggellano convivenze tra eterossessuali.

(Repubblica.it, 17 dicembre 2007)

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12.12.07

 

Genova: picchia la fidanzata, linciato dalla folla!


Una lite tra fidanzati, entrambi 20enni, è degenerata in un linciaggio. Ad alzare le mani violentemente sulla ragazza è stato il fidanzato, alle 14 in via Dante a Genova. E una decina di passanti si è scagliata contro il giovane, picchiandolo fino a farlo svenire. A fermare la folla inferocita sono stati i carabinieri.

I tempi stan cambiando! Il 24 novembre è uno spartiacque.

(Notizia segnalataci da usciamodalsilenzio_genova)

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10.12.07

 

Lavorare uccide


Io non lavoravo in una acciaieria, ma in una industria ceramica. Ci ho lavorato per 18 anni. Con turni di 6 giorni su 7,10 ore al giorno. 1000 euro al mese. (Disoccupata licenziata, Sassuolo)

Per gli infortuni... un morto decapitato da un muletto, una ragazza con una mano distrutta dalla pistola sparacolla a caldo, un ragazzo con il cranio incastrato in un mulino di macinazione, un uomo con mano maciullata da una pressa, poi, altri ancora, schiacciati, scivolati, intossicati dal piombo... non li ricordo tutti. Ogni tanto veniva l'Inail, per un controllo. Il capo reparto fermava la produzione, per farci pulire, ripristinava le barriere di sicurezza (disattivate... fanno perdere tempo). Gli ispettori ci vedevano con i guanti, i tappi, le scarpe. Sorridevano e andavano via.

La mafia non è solo quella della Calabria, è forte nella mia zona (comprensorio delle ceramiche sassolesi). Io ho descritto quella che era la mia realtà. Il fatto è che non gli frega niente a nessuno. Se ti fai male, per i padroni ed i sindacati, sei un coglione. Se denunci, se fai nomi, te la fanno pagare. Liberi di non credermi e liberi di farvi assumere in una bella industria ceramica. Io, che sono disoccupata, ho il terrore di tornarci.

La situazione, nelle fabbriche, non è spaventosa solo a Torino. C'è la legge 626, ma viene applicata solo quando c'è da dare la colpa a qualche operaio infortunatosi sul posto di lavoro. Dove lavoravo, nessuno è stato mai risarcito dall'Inail. Nemmeno mio suocero, che si è visto portare via un braccio da una cinghia, alla ceramiche Ragno.

Noi operai siamo sporchi, vestiti male, sempre pallidi e stanchi. A chi interessa un "popolo" così? A nessuno. I poveretti, morti a Torino, spero che maledicano chi li ha costretti a finire così e maledicano il nostro Paese, pieno di niente... e quel poco è putrido. Forse Grillo è sincero, non lo sò, lui ha il coraggio e la voglia di dire. Io non ho nè l'uno nè l'altro. Ho solo paura.

(Commento raccolto sul blog di Beppe Grillo, 8/12/2007)

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8.12.07

 

Ciudad Juarez: femminicidio, 4mila riesumazioni


Saranno riesumati i corpi di oltre quattromila donne seppelliti in fosse comuni nella città messicana di Ciudad Juarez. La città di frontiera con gli States è tristemente nota per il femminicidio cominciato agli inizi degli anni ’90, e del quale hanno fatto le spese migliaia di donne. I corpi riesumati (tutti di donne che dopo 90 giorni dalla morte non erano state identificate e delle quali nessuno aveva reclamato la scomparsa) sono stati sepolti proprio negli anni tra il ’91 e il 2005 per consentire agli esperti di prelevare frammenti di Dna da confrontare con quelli delle persone scomparse.

Non sono mai stati chiariti i motivi delle uccisioni e della scomparsa di donne: vittime di serial killer, dei cartelli di narcotrafficanti o delle violenze domestiche o sessuali. Molte delle vittime erano lavoratrici povere nelle fabbriche al confine con il Texas. La vicenda è diventata nota al mondo intero come «il femminicidio di Ciudad Juarez».

(il manifesto, 6.12.07)

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6.12.07

 

Inoccupate in Italia il 35% delle donne tra 25 e 54 anni


Il tasso di inattività delle donne tra i 25 e i 54 anni nella Ue è del 23,6 per cento, contro l'8,1 degli uomini. L'Italia si piazza al penultimo posto: le donne che non lavorano arrivano al 35,7 per cento. Solo Malta, con il 58,9 per cento, fa peggio. I paesi con il tasso più basso di inoccupazione sono Slovenia (13 per cento), Svezia (13,7), Estonia (14,3 per cento), Danimarca e Finlandia (14,6 per cento). È quanto emerge da un'indagine Eurostat, l'ufficio statistico della Ue. Prima causa di queste disparità, spiega l'istituto, è la responsabilità familiare che continua a gravare quasi interamente sulle donne.

(Rassegna.it, 06/12/2007)

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"La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale"

(Camilla Ravera - L’Ordine Nuovo, 1921)

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Sciopero generale, subito!

Stop agli omicidi del profitto! Blocchiamo per un giorno ogni attività. Fermiamo la mano assassina del capitale. Organizziamoci nei posti di lavoro in comitati autonomi operai con funzioni ispettive. Vogliamo uscire di casa... e tornarci!

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