17.2.08

 

La madre, il feto, il ginecologo


Dopo le polemiche, innescate da Formigoni, circa i limiti da imporre all'aborto terapeutico sulla base delle nuove possibilità di sopravvivenza al di fuori del grembo materno, e dopo l'uscita di un gruppo di ginecologi romani sullo stesso tema, si precisa il quadro dell'offensiva integralista: diretta non solo e non tanto contro la legge sull'interruzione di gravidanza, quanto, più alla radice, contro la centralità del «corpo pensante» della madre nella procreazione: reinquadrando la scena della nascita alla luce dei progressi tecnologici. (Grazia Zuffa*)

Partiamo da come sono presentati i «fatti» scientifici e le conseguenti ricadute. I progressi nel campo delle cure neonatali sono stati così straordinari che fino dalla ventiduesima settimana di gravidanza i feti sarebbero in grado di vivere: dunque va messo in discussione l'aborto oltre i tre mesi, che si configura come soppressione di un bambino. L'abbassamento dei limiti di sopravvivenza al di fuori dell'utero è un dato inoppugnabile che testimonia lo sviluppo tecnologico, ma può essere analizzato da molti punti di vista e ha molteplici risvolti di carattere etico: come si evince dal confronto da tempo in corso fra i pediatri e i neonatologi sulle cure da fornire ai bambini nati molto prematuri, il cui numero pare in crescita. Una problematica, come si vedrà, assai diversa dall'interruzione volontaria di gravidanza. Dunque, c'è innanzitutto da chiedersi perché proprio il conflitto con la 194 emerga come «il problema etico», vista l'eccezionalità dell'aborto negli stadi più avanzati di gravidanza, che la legge ma soprattutto le donne ben tengono presente.

L'aborto è destinato a balzare in primo piano solo seguendo una precisa e univoca lettura simbolica dell'evento tecnologico: i feti che un tempo erano destinati a rimanere «non nati» al di fuori del corpo materno, adesso «nascono» grazie alle tecnologie neonatali. Il feto è sempre più un «soggetto» autonomo: suo alleato è il medico, che lo salva (è proprio il caso di dirlo), dalla natura matrigna e dalla madre nemica (la madre assassina della moratoria sull'aborto). Questo il senso dell'appello di quei ginecologi che avocano a sé soli il diritto/dovere di rianimarlo, contro la madre. In tal modo il medico gioca un ruolo di autorità morale, oltre che tecnica. O meglio, le due cose sono connesse: le tecnologie al servizio della «sacralità della vita» sono anch'esse sacralizzate, col medico nelle vesti di officiante.

Soffermiamoci sulla assolutizzazione/sacralizzazione delle tecnologie: non una parola è spesa nel merito dell'ambivalenza delle tecniche, nel caso specifico le tecniche di rianimazione neonatale. Non una parola è spesa sul carattere straordinario (e straordinariamente gravoso) delle cure intensive cui si vorrebbe sottoporre di regola i feti e/o i prematuri di ventidue settimane. Eppure proprio questo è il punto da cui è partita qualche anno fa la riflessione di molti pediatri, sfociata in un documento, chiamato Carta di Firenze, da qualche tempo all'attenzione anche del Comitato nazionale di bioetica. Basti leggere il preambolo: le riflessioni della Carta sono «ispirate alla necessità di garantire alla madre e al neonato adeguata assistenza, col fine unico di evitare loro cure inutili, dolorose e inefficaci, configurabili con l'accanimento terapeutico». Dunque i dubbi (dei cultori laici della medicina e non dei gran sacerdoti) sorgono non dalla preoccupazione di un deficit di cure, ma al contrario di un possibile eccesso: ad uno stadio di maturazione in cui mancano le evidenze di efficacia degli interventi. In particolare, si ribadisce che al di sotto della 23ma settimana non esiste (allo stato attuale) possibilità di sopravvivenza al di fuori del corpo materno salvo casi del tutto eccezionali; al di sopra delle 25 settimane è possibile la sopravvivenza pur dipendente da cure intensive. Rimane dunque da valutare la fascia delle 23/24 settimane- dice la Carta- su come e quando applicare le cure definite straordinarie per evitare che si configurino come cure sproporzionate.

Per chiarire la delicatezza umana di questa valutazione basti pensare all'invasività di queste cure straordinarie, a fronte non solo di bassissime probabilità e durata di sopravvivenza, ma anche di danni iatrogeni gravi e irriversibili: pratiche quali l'intubazione tracheale e il massaggio cardiaco esterno possono provocare, oltre a sofferenze certe, la lacerazione della trachea, lo pneumotorace e altro, data l'estrema vulnerabilità di questi piccolissimi. I rischi sono aumentati dalla casistica estremamente esigua a quello stadio di età e dunque dall'esperienza assai limitata dei medici.

Da qui l'insistenza della Carta nel coinvolgere i genitori nella decisione se intraprendere o meno le cure straordinarie al di sotto delle 25 settimane. Può sembrare un'indicazione ovvia, a partire dal riconoscimento della responsabilità genitoriale e dal rispetto degli affetti dei soggetti coinvolti: ma questo è il punto principale di scontro, con chi vorrebbe lasciare al solo medico la scelta. Eppure, proprio perché il sapere tecnico vacilla (mancano le evidenze circa l'appropriatezza delle cure mediche da prestare) e la valutazione dei costi/benefici è particolarmente dubbia e dolorosa, proprio per questo i medici dovrebbero temere la solitudine. Per alcuni è così, come la Carta mostra. Per altri no: come se dall'imperativo assoluto di schierarsi a favore della Vita discendesse un potere assoluto delle tecniche e del medico chiamato ad applicarle. Un potere che non vuol vedere i limiti e le contraddizioni delle tecniche di cui dispone, che volta il capo davanti alle nuove sofferenze che possono arrecare. In questa luce, le problematiche dell'inizio vita appaiono del tutto simili a quelle del fine vita; così come le posizioni etiche in campo.

Torniamo alla polemica intorno alla 194 o meglio alla rappresentazione delle tecnologie salvifiche contro la madre mortifera. L'irruzione delle tecniche sulla scena della procreazione non è cosa nuova e neppure il loro utilizzo simbolico contro le donne. Barbara Duden ha mostrato come le tecnologie della gravidanza, rendendo trasparente il corpo femminile, siano un potente veicolo della rappresentazione del feto «autonomo» e del degrado della madre ridotta a puro ambiente di vita. In un crescendo, le tecnologie della riproduzione hanno «creato» l'embrione in provetta, al di fuori del corpo materno. Oggi quel corpo viene mostrato come sempre meno necessario: ridotti i tempi dell'opera materna, ridotta la funzione, negata la parola. Sempre più la madre è un grembo di transito. L'antico sogno maschile del controllo completo della procreazione sembra più vicino a realizzarsi. Di questo dovremmo discutere, uomini e donne. (*membro del Comitato nazionale di bioetica)

(il manifesto, 9.2.08)

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